venerdì 8 gennaio 2016

Lettera al Commissario Dimitris Avramopoulos

Onorevole Dimitris Avramopoulos

Commissario per gli affari interni, migrazione e cittadinanza



Gentile onorevole

Da  un mese circa 230 profughi eritrei, sudanesi e siriani protestano a Lampedusa contro il sistema europeo di riallocazione: contestano, in buona sostanza, il fatto che il programma adottato non tiene conto dei desideri, delle situazioni particolari, dei legami affettivi, di parentela, di amicizia in base alle quali ciascuno può preferire un paese piuttosto che un altro. “Siamo considerati – dicono – come dei pacchi postali da spedire da qualche parte, anziché esseri umani con una loro storia, un vissuto, un carico di speranze e di progetti per il futuro”. Con questo spirito e per sottolineare tutto il disagio e il dolore provocati dall’indifferenza per la loro sorte, hanno iniziato una manifestazione che si è protratta per settimane all’interno del centro di accoglienza dell’isola (dove funziona uno degli hotspot chiesti dall’Unione Europea all’Italia) e che negli ultimi giorni è stata portata direttamente nel cuore del paese, la piazza e il sagrato della chiesa madre, dove sono rimasti ininterrottamente, giorno e notte, chiedendo l’aiuto del sindaco e del parroco e la solidarietà degli isolani. Nonostante la presenza tra loro anche di donne e bambini, non hanno ceduto nemmeno ai disagi delle notti passate all’addiaccio, al freddo e alla pioggia, sostenendo di essere pronti a protrarre ad oltranza la loro protesta e di non essere disposti a farsi registrare e identificare, con la rilevazione delle impronte digitali, fino a quando non avranno l’assicurazione che si terrà conto, nei limiti del possibile, delle loro indicazioni sulla scelta del paese dove ricollocarli.
La linea più “dura” della contestazione è temporaneamente rientrata grazie alla mediazione alla quale ho partecipato io stesso, insieme al sindaco e al parroco: i profughi hanno accettato di rientrare in via provvisoria nel centro hotspot, ma solo per pochi giorni: il tempo necessario per avviare una trattativa a livello ministeriale ed europeo per esaminare le loro richieste.
Credo sia eloquente quanto mi ha detto uno dei profughi eritrei: “Io sono fuggito da un regime che pretendeva di decidere della mia vita al posto mio. Di stabilire, cioè, il mio futuro, determinare dove e come dovevo vivere. Per questo sono fuggito: per essere libero di scegliere autonomamente il mio futuro. Qui ora mi trovo invece davanti a un altro regime di regole che, sostanzialmente, pretende anch’esso di determinare il mio futuro, perché è evidente che la mia vita dipenderà dal posto in cui verrò mandato. Ecco il motivo del mio no: chiedo il rispetto della mia libertà e del mio desiderio di avere una vita dignitosa”. Tenendo conto di tutto quello che questo giovane e tanti altri come lui hanno passato per arrivare in Europa, spesso indebitandosi e lasciandosi alle spalle separazioni laceranti dalla propria famiglia e dal proprio mondo, credo che sia il caso di ascoltare queste parole, cercando una soluzione giusta, che non vanifichi il sogno di costruirsi in libertà una nuova vita. 

Mi viene in mente il terzo comma dell’articolo dieci della Costituzione italiana che è ormai anche la mia Costituzione: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Sono convinto che anche l’applicazione degli accordi europei debba essere ispirata a questi principi. Che bisogna tener conto, cioè, oltre che delle opportunità di lavoro, di studio, ecc. anche di eventuali punti di riferimento, legami affettivi, presenza di comunità nazionali, possibilità di riunificazione familiare, ecc.: tutti elementi che possono fare da importante supporto nel cammino di integrazione nel nuovo paese. E’ tutto qui il punto: quei profughi non vogliono essere scaricati nel primo paese che dice di essere disponibile, senza esaminare la soluzione ottimale e quale sia la via da percorrere per perseguirla. Tanto più alla luce delle notizie di una aperta ostilità quando non addirittura di casi di razzismo e violenza provenienti da paesi che pure si dicono disponibili all’accoglienza. Notizie di cui i profughi sono ben informati.
Ecco, quei profughi non si rifiutano di farsi identificare. Al contrario. Vogliono però sapere quale potrà essere il loro futuro. Chiedono cioè di unificare le procedure che oggi si svolgono per tappe, di essere informati sui criteri in base ai quali viene loro assegnata la destinazione e di tener conto dei loro bisogni e della eventuale possibilità di ricongiungersi con familiari e parenti. A ben vedere, nulla di più che il rispetto della Costituzione Europea: carta dei diritti fondamentali dell’Unione, Titolo I e Titolo II, sulla dignità e libertà delle persone.
  
Don Mussie Zerai
 Presidente dell’agenzia Habeshia

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