venerdì 10 aprile 2015

Appello al Governo di Israele e alla Comunità Internazionale

Israele: rifugiati esportati in Ruanda
Non si può risolvere così  il problema dei richiedenti asilo
  
No alla deportazione a pagamento dei profughi africani da Israele al Ruanda. Perché è proprio questo – una deportazione contro la volontà dei profughi – l’effetto che rischia di configurasi con l’accordo multimilionario che il governo israeliano sta concludendo con quello ruandese. E, per di più, la prospettiva è che si arrivi a una vera e propria espulsione di massa dei rifugiati presenti in Israele. Trattative analoghe a quelle con il Ruanda, infatti, sarebbero in corso anche con l’Uganda, mentre nei mesi scorsi si è parlato del Kenya.
In Israele vivono attualmente oltre 60 mila migranti, in grande maggioranza provenienti dal Sudan e dall’Eritrea, due dei paesi africani che, in rapporto al numero di abitanti, più hanno alimentato negli ultimi anni la diaspora di donne e uomini perseguitati, spesso costretti alla fuga come unica via di scampo per salvarsi la vita stessa. La maggior parte sono arrivati attraverso il Sinai, prima che l’intera linea di confine con l’Egitto fosse sbarrata dalla barriera impenetrabile costruita in pieno deserto per centinaia di chilometri. Molti vivono come possono nelle periferie di Tel Aviv o Gerusalemme e nei sobborghi delle altre città maggiori, ma migliaia sono rinchiusi nel centro di detenzione di Holot, nel Negev, nonostante la Corte Suprema si sia più volte pronunciata per la chiusura dell’intero complesso, asserendo che “detenere i clandestini è illegale”. E quasi tutti sono trattati, in genere, da “infiltrati” e non da richiedenti asilo, come avrebbero diritto. Basti ricordare che il tasso medio di riconoscimento dello status di rifugiato in Israele non supera il 5 per cento contro una media internazionale del 39 per cento. Media che, nel caso di eritrei e sudanesi, sale addirittura rispettivamente all’84 e al 64 per cento.
Proprio questo è il punto. Manca in Israele una adeguata politica di accoglienza e integrazione e ciò ha creato assai spesso forme di discriminazione di fatto, se non, in alcuni casi, un’aperta ostilità, sfociata anche in gravi episodi di intolleranza, inclusi alcuni – per fortuna rari – raid xenofobi. Ora, anziché cercare di eliminare difficoltà e incomprensioni attraverso un programma di asilo adeguato, è arrivata la notizia dell’accordo in base al quale – come hanno riferito all’inizio di aprile il presidente ruandese Paul Kagame e il ministro dell’interno israeliano, Gilad Erdan – centinaia di immigrati eritrei e sudanesi ospiti dei centri di detenzione verranno inviati in Ruanda, il cui governo è disposto ad accoglierli in cambio di sovvenzioni del valore di milioni di dollari.
Il ministro Erdan ha giustificato questo provvedimento asserendo che l’obiettivo è incoraggiare i migranti “a lasciare Israele in modo sicuro e dignitoso” e che il Ruanda è disposto a regolarizzarli e a integrarli, aggiungendo – come precisa il quotidiano Yediot Ahronot – che ad ogni immigrato in partenza verrà offerto un “pacchetto che include un volo e 3.500 dollari”. Ma se l’espulsione si rivelasse obbligatoria, come sembra nei fatti, si tratterebbe in realtà di un respingimento di massa, in contrasto con il diritto internazionale che obbliga ad assicurare assistenza e accoglienza a chi è costretto a scappare da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni di ogni genere, carestia, fame. A chi, in una parola, si trova nella condizione di richiedente asilo o migrante forzato, come accade alla stragrande maggioranza dei giovani arrivati in Israele dall’Africa Orientale e sub-sahariana. Appare difatti una forma di costrizione ad andarsene e, dunque, una espulsione obbligatoria, anche il fatto che non si sia mai attivata una adeguata politica di accoglienza e che a migliaia di immigrati la sola prospettiva offerta sia stata un centro di detenzione o una grama esistenza di emarginazione. L’unica differenza rispetto alla serie di respingimenti indiscriminati a cui si è assistito in questi anni nel Mediterraneo, è che, in questo caso, l’espulsione viene effettuata con la collaborazione a pagamento di alcuni Stati africani e con la “indoratura” di un incentivo in denaro ai singoli interessati. Una strategia che assume quasi la veste di una “monetizzazione” del bisogno e della povertà. Del bisogno dei richiedenti asilo di trovare un rifugio sicuro e dignitoso e della povertà degli Stati africani disposti a collaborare con questa scelta di Israele in cambio di denaro.
Ritorna, in una parola, la logica dei “potenti della terra” chiusi nella propria fortezza, indifferenti alla sorte degli “ultimi della terra”: la logica dei paesi ricchi che possono permettersi di pagare la esternalizzazione dei propri confini, spingendoli il più lontano possibile e affidando ai paesi più poveri il compito di tenerne alla larga i disperati in cerca di aiuto. Non importa a che prezzo.

L’agenzia Habeshia ritiene che non può essere assolutamente questa per Israele la via per risolvere il problema dei richiedenti asilo e dei rifugiati che gli hanno lanciato il proprio grido di aiuto in questi anni, magari spinti anche dalla convinzione che forse nessuno avrebbe potuto comprenderne la tragedia come, per la sua stessa storia millenaria, proprio il popolo ebraico.
Nella certezza che Tel Aviv sta compiendo quanto meno un errore se non un vero e proprio sopruso, dunque, Habeshia fa appello:
 – Alle massime istituzioni israeliane – Presidenza della Repubblica, Governo, Parlamento, Corte Suprema – perché venga rivista e annullata la scelta fatta, prima che sia troppo tardi.
 – Al  Governo ruandese perché non monetizzi la sofferenza di decine di migliaia di profughi.
 – Alla comunità internazionale perché chieda a Tel Aviv il rispetto della Convenzione di Ginevra 1951 di cui è firmataria Israele, e il rispetto dei diritti umani e una diversa politica di asilo e accoglienza, in linea con i sistemi adottati nei paesi di più avanzata democrazia.
                                                     don Mussie Zerai

                                             presidente dell’agenzia Habeshia
  

Roma, 10 aprile 2015  

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