martedì 31 dicembre 2013

“Mare Nostrum”: un’altra barriera per respingere i profughi in Libia

di Emilio Drudi

Una intera squadra navale della Marina Militare. Rafforzata da aerei ed elicotteri da combattimento. La compongono la nave d’assalto “San Marco”, l’ammiraglia, sede del comando dell’intera missione, dotata anche di elicotteri a lungo raggio; due fregate lanciamissili con 250 uomini d’equipaggio e un elicottero; due corvette, due pattugliatori d’altura e una unità da trasporto per il supporto logistico. La copertura aerea è assicurata da due elicotteri della Marina, muniti di apparecchiature di ricerca elettroniche e agli infrarossi, dislocati a Lampedusa o a Pantelleria ma che possono essere imbarcati direttamente sulla “San Marco”; altri quattro elicotteri e un aereo pattugliatore, destinati al presidio di Lampedusa; un bimotore per la vigilanza notturna, che opera in collaborazione con due elicotteri specializzati in voli di ricerca e soccorso. In più, un velivolo senza pilota, uno dei droni-spia dell’Aeronautica che, in grado di operare per venti ore consecutive, realizzando riprese elettro-ottiche, all’infrarosso e radar, completa la fitta rete di sorveglianza sul Canale di Sicilia già assicurata dai radar della Guardia Costiera, della Finanza e dalle stazioni del sistema di identificazione della Marina Militare. Tra equipaggi imbarcati, piloti e personale di terra negli aeroporti, una forza di circa 1.500 marinai, avieri e militari delle forze speciali, incluso il contingente di fanti di Marina della brigata San Marco. E’ quanto ha schierato l’Italia per il programma “Mare Nostrum”, la missione di controllo del Mediterraneo decisa dopo la strage di Lampedusa ed entrata a regime circa due mesi fa.
Il Governo e, in particolare, i ministri della difesa Mario Mauro e dell’interno Angelino Alfano, hanno insistito sul carattere pacifico e umanitario dell’operazione. In sostanza, però, è stata predisposta una grossa task-force che si direbbe destinata ad un quadro di guerra, fa notare Antonio Mazzeo, un giornalista impegnato sui temi della pace e dei diritti umani, che ha analizzata il piano nei dettagli, sottolineando come i mezzi davvero pacifici siano soltanto i due elicotteri attrezzati per la ricerca e il soccorso, dirottati a Lampedusa dalla base di Cervia. Esattamente l’opposto, dunque, di quanto era lecito aspettarsi per una “missione umanitaria”.
Al pari di Antonio Mazzeo, sono arrivati a questa stessa conclusione non soltanto istituzioni e organizzazioni che da sempre chiedono all’Italia e all’Europa una politica più aperta nei confronti dei migranti, ma anche fonti non certamente imputabili di “buonismo”, come il Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria. “Anche se la missione annunciata è stata definita umanitaria e di soccorso, desta qualche sospetto la composizione dello strumento aeronavale messo in campo”, ha scritto il giornale economico, evidenziando le caratteristiche operative della potente unità da sbarco e delle fregate lanciamissili, certamente inadatte per soccorrere gente in balia delle onde o barconi in procinto di affondare. “Si tratta – ha spiegato il Sole – di navi di oltre tremila tonnellate, pesantemente armate, con poco spazio a bordo per ospitare naufraghi e molto onerose”, mentre risultano l’ideale per azioni militari “da coordinare magari con il governo libico”.
La contraddizione implicita in questa imponente task-force appare evidente. O meglio, è evidente rispetto agli “scopi umanitari” di soccorso a mare con cui è stata dipinta dal Governo la missione “Mare Nostrum”. Viceversa, la forza in campo è perfettamente coerente con quello che sembra rivelarsi di giorno in giorno l’obiettivo vero del programma. Cresce la sensazione, difatti, che si miri non tanto a salvare i fuggiaschi che, spinti da fame, guerre e persecuzioni nel proprio paese, sfidano il mare su carrette che a stento galleggiano, quanto a impedire nuovi arrivi di profughi in Italia, bloccando gli imbarchi direttamente in Libia o intercettando i tanti battelli della disperazione appena hanno lasciato i porti africani e sono ancora all'interno o ai margini delle acque territoriali di Tripoli. Lo ha evidenziato lo stesso Sole 24 Ore riferendosi, ad esempio, all'utilizzo dei droni e ai compiti delle fregate o dei fucilieri di Marina. “Grazie alla loro autonomia di volo – ha scritto il quotidiano – i droni possono sorvegliare costantemente i porti di partenza dei barconi, consentendo alle navi militari di raggiungerli appena al di fuori delle acque libiche”. Quanto ai battelli da sbarco e ai fucilieri ospitati sull'ammiraglia, ha aggiunto, si tratta di “mezzi e truppe idonei a riaccompagnare in sicurezza sulle coste libiche gli immigrati recuperati in mare, sotto la scorta deterrente delle lanciamissili”.
Un’analisi analoga o addirittura più esplicita – fa notare Antonio Mazzeo – l’ha fatta Leonardo Tricarico, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, invocando un accordo diplomatico con Tripoli ed eventuali altre capitali nordafricane, “per far si che i droni, anziché essere impiegati in una ricerca senza meta in mare aperto, vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare in maniera precoce le attività preparatorie all'imbarco e fermarle per tempo”.
Ecco il punto. Il piano “Mare Nostrum” sembra finalizzato soprattutto a vigilare sul “confine” mediterraneo dell’Italia e dell’Europa. Il ministro Angelino Alfano, del resto, non ha esitato a dirlo anche all'indomani della strage di Lampedusa, quando, a margine della cerimonia farsa di Agrigento in memoria delle vittime del tre ottobre, ha insistito che, pur profondamente partecipe e scossa dalla tragedia, l’Italia non avrebbe potuto dimenticare il dovere di difendere la sua frontiera perché, ha specificato, “una nazione che non sa difendere i propri confini non è una nazione degna di questo nome”. Come se alle porte ci fossero un’orda di terroristi sanguinari o un esercito invasore e non frotte di disperati. Senza contare che questa “frontiera” è stata spostata molto più a sud delle acque territoriali italiane: coincide con le sponde africane del Mediterraneo, in attesa magari di spingerla ancora più lontano, lungo il confine sahariano della Libia, per bloccare i fuggiaschi e i migranti in pieno deserto, prima che  possano varcarlo, come si è impegnato a fare il presidente Ali Zeidan nell’accordo firmato a Roma il 4 luglio scorso con il premier Enrico Letta.
Ci sono fin troppi elementi, insomma, per sospettare che l’operazione si riveli una riproposizione, mascherata da aiuto umanitario, della sciagurata politica dei blocchi indiscriminati in mare adottata dal governo Berlusconi nel 2009: quella politica che ha portato ad autentiche deportazioni forzate a Tripoli di numerosi uomini e donne e che è poi costata all’Italia, nel 2012, una umiliante condanna da parte della Corte Europea per i diritti dell’uomo. Questo sospetto – come fa notare Antonio Mazzeo – si è fatto strada con forza anche tra alcuni giuristi e tra numerose associazioni antirazziste e di difesa dei diritti umani. Desta perplessità, in particolare, il fatto che il ministro Alfano abbia indicato come destinazione dei fuggiaschi intercettati in mare eventuali “porti sicuri” in Africa. Il professor Fulvio Vassallo Paleologo, membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, ha rilevato che, riportando i migranti in presunti “porti sicuri” non italiani, “c’è il rischio fondato che si ripetano i respingimenti verso i paesi che non garantiscono la tutela dei diritti umani, come è accaduto nel 2009, quando la Guardia di Finanza italiana riportò in Libia decine di migranti”.
Già, in Libia. Ancora una volta la Libia, grazie agli accordi bilaterali, continuamente rinnovati dal 2009 fino ad oggi, con i quali Roma assegna a Tripoli il compito di “gendarme” contro l’emigrazione. Dimenticando che in questo paese non ci sono “porti sicuri” per i disperati in fuga da eccidi e persecuzioni, perché è anche la Libia stessa a perseguitarli, considerando un crimine il loro ingresso forzatamente clandestino, gettandoli in lager dove subiscono violenze e soprusi di ogni genere, minacciando di riconsegnarli allo Stato dal quale sono scappati. Accade tutti i giorni. L’ultimo caso è della mattina di Natale, quando 240 profughi eritrei rinchiusi nel campo di detenzione di Ajdabiya, in Cirenaica, sono stati prelevati da un gruppo di militari armati, stipati su camion-container a spintoni e a colpi di manganello e condotti fino a Misurata, 650 chilometri più a ovest, dove li ha presi in consegna un reparto di miliziani. Ora la sorte di quei disperati è in balia di milizie irregolari fuori controllo, che non rispondono a nessuno. Meno che mai al governo. Nessuno sa chi ne ha deciso il trasferimento e perché. L’unica cosa certa è che ora sono molto meno al sicuro di quanto fossero nella situazione, pure terribile, di Ajdaniya. Lì, almeno, le famiglie non erano state separate: coniugi, genitori e figli vivevano insieme. Secondo le ultime notizie arrivate dalla Libia, invece, dopo Misurata uomini e donne, mogli e mariti, sono stati costretti a dividersi. I maschi sono rinchiusi nel lager di Khoms, dove hanno trovato altri 140 profughi in condizioni disumane, segregati da due mesi in uno stanzone buio e senz’aria, tormentati da maltrattamenti e umiliazioni quotidiane, bastonati a sangue al minimo cenno di protesta. Nel gruppo, 185 in tutto, sono stati inclusi anche ragazzini di 15-16 anni, strappati con forza alle madri, che cercavano di nasconderli e trattenerli. Le 55 donne, insieme agli undici bambini più piccoli, fino a 11 anni di età, incluso un bimbo nato proprio ad Ajdabiya il giorno prima del trasferimento forzato, si trovano nel centro di detenzione di Garabulli, una vera e propria prigione, insieme ad altre tredici giovani, alcune con i figli piccoli, catturate in una delle tante retate condotte dalla polizia nella regione di Tripoli. Sono terrorizzate: isolate dai mariti o comunque dagli uomini adulti della famiglia, i miliziani possono abusarne in qualsiasi momento, senza che ci sia qualcuno a difenderle. Sanno che è accaduto più volte. Che accade, anzi, quasi sistematicamente nei centri di detenzione femminili. E c’è il timore che buona parte di loro, uomini, donne e persino i ragazzini, possano essere venduti come merce: braccia per il lavoro forzato o schiavi per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani e che, sulla scia di quanto accade da anni nel Sinai, hanno messo radici anche in Libia.

Ecco, l’operazione Mare Nostrum, riconsegnando profughi e migranti ai “porti sicuri” libici, rischia di moltiplicare episodi come questo. Legando ancora una volta il nome dell’Italia ai soprusi, alle angherie, alle violenze, ai ricatti, alle torture che si consumano nei centri di detenzione di Tripoli.

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