domenica 1 dicembre 2013

Il traffico di esseri umani e armi dall’Eritrea: ripercussioni a livello regionale

Il traffico di esseri umani e armi dall’Eritrea: ripercussioni a livello regionale
I recenti naufragi a largo di Lampedusa hanno riportato all’attenzione della cronaca internazionale la massa di migranti che dall’Africa sub-sahariana tentano di raggiungere le coste italiane. Tra questi, una percentuale consistente proviene dall’Eritrea, Paese sotto il giogo del regime dittatoriale di Isaias Afewerki. Da alcuni anni l’Eritrea è oggetto di crescenti attenzioni da parte della Comunità Internazionale sia perché rappresenta uno dei principali snodi africani per i traffici di esseri umani e di armi sia per il sostegno che il regime di Asmara assicura a movimenti terroristici che destabilizzano l’intera regione del Corno d’Africa.

Afewerki, al potere sin dalla proclamazione dell’indipendenza di Asmara dall’Etiopia nel 1993, ha trasformato l’Eritrea in un regime repressivo e liberticida. Nel Paese è autorizzato soltanto il partito presidenziale, il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (PFDJ), e viene messa a tacere qualsiasi tipo di opposizione. Il dittatore riesce a controllare in maniera capillare la popolazione attraverso il servizio militare, che, secondo quanto stabilito dall’art. 25 della Costituzione, è obbligatorio per tutti gli adulti di età compresa tra i 18 ed i 50 anni. Si tratta di una leva di 18 mesi, di cui 6 di addestramento e 12 di servizio militare effettivo, che tuttavia viene usualmente prolungato senza alcun termine di scadenza. I militari, sotto la minaccia di torture, detenzione o ritorsioni sui familiari, si occupano non solo del pattugliamento e della difesa del confine, ma sono anche impiegati in attività di costruzione di strade, realizzazione di reti elettriche, coltivazioni o lavori per gli alti quadri del PFDJ. Anche i giovani sono, ben prima del compimento della maggiore età, sono costretti a prestare servizio militare. Secondo il famigerato programma Mahtot, gli studenti della scuola secondaria sono costretti a completare l’ultimo anno del ciclo di studi al campo militare di Sawa. Coloro che si rifiutano non possono continuare gli studi e sono ostacolati nella ricerca di qualsiasi tipo di lavoro. La coscrizione obbligatoria viene giustificata come mezzo di difesa dal pericolo di attacco dall’Etiopia, con la quale è ancora aperto il contenzioso sui confini. In particolare, i due Paesi rivendicano la sovranità sul territorio di Badme, assegnato dalla Commissione per i confini delle Nazioni Unite all’Eritrea nel 2002 ma occupato de facto dall’Etiopia, che non ha riconosciuto la nuova delimitazione.

La repressione interna, oltre all’endemica povertà, spinge ogni anno migliaia di eritrei a lasciare il Paese. L’Eritrea, infatti, registra uno dei più alti tassi di emigrazione in rapporto alla popolazione. Non si tratta soltanto di disperati, ma anche di militari che disertano il servizio obbligatorio, come i tre ufficiali che di recente hanno defezionato chiedendo asilo all’Arabia Saudita. La diserzione è una testimonianza allarmante del malcontento dei militari, che costituiscono la spina dorsale per il regime di Asmara. I dissapori che serpeggiano nell’apparato di Difesa e sicurezza del Paese si sono reso ancor più evidenti durante il tentato golpe dello scorso 21 gennaio, quando un centinaio di membri dell’esercito, guidati dal Colonnello Osman Saleh, ha occupato il Ministero delle Comunicazioni e la tv di Stato. Tuttavia, in quel caso, il colpo di Stato è fallito a causa dell’esiguo numero dei congiurati.

Le Nazioni Unite hanno stimato che ogni mese emigrano tra i 166 ed i 250 eritrei; dei circa 941 mila emigrati dagli anni ’70 (su una popolazione totale di 6,131 milioni, cioè il 18% della popolazione) oltre 25000 hanno lasciato il Paese dal 2000 ad oggi. Sono circa 252000 i rifugiati eritrei, di cui quasi 62000 vivono nei campi profughi in Etiopia, Gibuti e Yemen. Dal momento che Asmara conduce controlli strettissimi sulle procedure per lasciare il Paese e limita il rilascio di passaporti e visti in uscita, gli eritrei che desiderano emigrare sono costretti a farlo clandestinamente. L’emigrazione è dunque divenuta un lucroso business per l’establishment di governo di Asmara. Secondo i rapporti 2012 e 2013 delle Nazioni Unite su Somalia ed Eritrea, i signori del traffico di esseri umani sono il Generale Teklai Kifle “Manjus”, il Colonnello Fitsum Yishak e Kassate Ta’ame Akolom, membro di spicco dei servizi segreti.

La raccolta dei clandestini avviene inizialmente nei piccoli villaggi dall’Eritrea occidentale, poi, attraverso la città di Tesseney, prosegue a Wadi Sharifay o Sitau Ashrin, due ex campi profughi in Sudan, dove vengono consegnati ai trafficanti Rashaida, un’etnia nomade stanziata lungo il confine tra i due Paesi. Una volta in Sudan, i migranti vengono caricati su camion che, attraverso le rotte desertiche, giungono in Libia o in Egitto. Il costo del viaggio è di circa 3000 dollari a persona, una cifra enorme se si considera che in Eritrea la maggior parte della popolazione vive con poche decine di dollari all’anno. Tuttavia, in molti casi, i Rashaida, con la complicità della polizia sudanese, rapiscono i clandestini e chiedono alle famiglie esosi riscatti, che si aggirano intorno ai 40000 dollari. In caso di mancato pagamento, gli ostaggi, già torturati durante la detenzione, vengono uccisi, sfruttati per il traffico di organi o costretti alla prostituzione.

Chi riesce a pagare il riscatto prosegue il viaggio verso la Libia o il Sinai. Come se non bastasse, la rotta e i convogli in direzione egiziana vengono utilizzati anche per il traffico di armi. Infatti, per non far intercettare quest’ultimi dai satelliti, i migranti vengono sistemati sopra munizioni e armi, e arrivano così in Nord Africa e nella Penisola Arabica. Una volta nel Sinai e in Libia, i migranti possono tentare di raggiungere le coste italiane e da lì altre mete europee o americane; molti provano ad arrivare in Israele o in Arabia Saudita. Tuttavia, anche quando riescono a stabilirsi all’estero, gli eritrei continuano ad essere perseguitati dal regime. Il governo centrale, infatti, impone un prelievo del 2% sui redditi degli emigrati, la cosiddetta “tassa sulla diaspora”; questa, imposta a partire dal 1995 con la legge n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), è nata con l’intento di raccogliere fondi per la ricostruzione del Paese in seguito alla guerra con l’Etiopia, ma in realtà è stata utilizzata per finanziare il regime e i suoi affiliati, senza che l’uso di tale denaro possa essere tracciato. Il pagamento di questo contributo è necessario per ottenere documenti, visti e qualsiasi altra prestazione da parte dell’Ambasciata e, se non viene pagata, i familiari degli eritrei residenti all’estero sono soggetti a persecuzioni e vessazioni. 

Oltre al traffico di uomini, il contrabbando di armi è una importante voce di bilancio per il regime di Asmara, soprattutto da quando, nel 2009, gli è stato imposto l’embargo dalle Nazioni Unite. Gli uomini che gestirebbero questo traffico sarebbero il Generale Kifle, già leader occulto del business delle emigrazioni clandestine, e due ufficiali, i fratelli Borhame e Yesef Hadegu. L’embargo totale proibisce la vendita e la fornitura di armi, materiali, parti tecniche, nonché vieta la somministrazione di assistenza nella formazione e nell’addestramento alle Forze Armate Eritree. Il regime, tuttavia, riesce ad aggirare le sanzioni attraverso l’importazione di sistemi dual-use, che possono essere destinati sia a scopi civili che militari. L’arsenale viene poi stoccato ad Asha Golgol, a circa 9 km dall’aeroporto internazionale di Asmara.

I traffici di esseri umani e armi dall’Eritrea hanno gravi ripercussioni sulla stabilità e la sicurezza non soltanto del Corno d’Africa, ma anche dell’Unione Europea, della Penisola Arabica e di Israele, per ragioni legate al terrorismo e all’immigrazione clandestina. Secondo le autorità di Tel Aviv, dei circa 58000 i richiedenti asilo in Israele dal 2006 al 2012, i 56,5% (cioè 32000 persone) provenivano dall’Eritrea; dal 2009 al 2011 sono arrivati in Israele attraverso il Sinai circa 60000 eritrei. Le autorità israeliane compiono arresti arbitrari per effettuare controlli sugli eritrei e dal 2010 hanno avviato la costruzione di nuovi centri di accoglienza per i migranti. Per arginare il flusso migratorio, in un quadro di sicurezza sensibilmente peggiorato a causa dell’instabilità dell’Egitto e dell’aumento delle violenze in Sinai, Israele ha inoltre deciso di costruire nel 2012, in Sinai, un muro difensivo, costringendo migliaia di eritrei ad interrompere il proprio viaggio della speranza. Tel Aviv sta tentando di combattere anche il contrabbando di armamenti, che verrebbero venduti dal governo di Asmara ad Hezbollah, Hamas ed altri gruppi militanti palestinesi nella Striscia di Gaza sfruttando i migranti, che vengono usati come scudi per nascondere i carichi di armi.

Anche per l’Arabia Saudita i traffici provenienti dall’Eritrea causano diversi problemi di stabilità e sicurezza e per questo la monarchia ha appoggiato le sanzioni ONU contro il regime di Afewerki. Riyadh, infatti, accoglie numerosi emigrati eritrei, che vengono impiegati per i lavori più umili. Costretta dalle agitazioni interne a promuovere la saudizzazione dei posti di lavoro per diminuire la disoccupazione della popolazione autoctona, Riyadh ha avviato una vasta operazione di rimpatrio di immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno nei loro Paesi di origine, soprattutto Eritrea, Etiopia e Sudan. Anche lo Yemen si trova a fronteggiare una vasta immigrazione, dal momento che ospita circa 250000 tra eritrei e somali. Sono numeri che destano preoccupazione se si considera che questi emigranti si trovano spesso senza documenti e senza lavoro e per questo alcuni potrebbero dedicarsi ad attività criminali o, nella peggiore delle ipotesi, costituire un ipotetico bacino di reclutamento per al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Oltre a costituire uno snodo per i traffici di armi e uomini, l’Eritrea è un attore destabilizzante per l’intero Corno d’Africa a causa del sostegno che offre ad alcuni movimenti terroristici e secessionisti della regione. Asmara, in particolare, sostiene economicamente e logisticamente i movimenti ribelli anti-etiopi, soprattutto i gruppi armati di matrice qaedista in Somalia, quale al-Shabaab. Quest’ultimo è appoggiato da Asmara per destabilizzare l’Etiopia, attore chiave nella guerra contro le Corti Islamiche nel 2006. La personalità che gestirebbe i contatti dell’Eritrea con i miliziani di al-Shabaab sarebbe Abdi Nur Siad Abdi Wal, affiliato all’Alliance for the Re-liberation of Somalia (ARS),un gruppo islamista somalo con base in Eritrea e legato anche alla pirateria nel Golfo di Aden. Ben 110 addestratori eritrei sarebbero stati infiltrati in Somalia, nei territori controllati da al-Shabaab. Altri due colonnelli eritrei sarebbero coinvolti nell’organizzazione dell’opposizione al legittimo governo di Mogadiscio: Taeme Abraham Goitom e Tewolde Habte Negash, che si occuperebbero anche dell’addestramento dei combattenti. Il Kenya rappresenta il luogo dei contatti tra il regime eritreo e al-Shabaab, vista la presenza di una consistente comunità somala nella capitale keniota Nairobi. E’ stato scoperto, infatti, che attraverso l’Ambasciata eritrea in Kenya avveniva uno scambio di denaro (circa 80000 dollari al mese) tra il regime di Afewerki e al-Shabaab. Il trasferimento dei contanti dal Kenya alla Somalia avveniva grazie ai membri della comunità somala a Nairobi affiliati ad al-Shabaab, che raccoglievano il denaro dai funzionari diplomatici eritrei e lo consegnavano in Somalia.

Con la caduta dei regimi di Muhammar Gheddafi in Libia e di Hosni Mubarak in Egitto, Asmara si è ritrovata sostanzialmente isolata dal punto di vista diplomatico, poiché ha perso gli unici due Paesi che intrattenevano regolari relazioni con essa. Ciò ha spinto Afewerki a cercare nuovi interlocutori per bilanciare il ruolo del nemico etiope nella regione e per garantire la sopravvivenza del regime. Nel conflitto asimmetrico tra Addis Abeba e Asmara si sono così inseriti anche Qatar e Iran. Mentre Doha si è posta come mediatrice del conflitto eritreo-etiope, Teheran ha tentato di sfruttare i rapporti con l’Eritrea per consolidare la sua posizione nel Mar Rosso, suscitando le preoccupazioni di Israele.

Asmara e Teheran, costretti dalle sanzioni economiche che colpiscono entrambi i Paesi, hanno infatti rafforzato la loro cooperazione economica e politica. Nel 2008 i due Stati hanno firmato un accordo per mantenere la presenza militare iraniana ad Assab, ufficialmente per proteggere una raffineria di petrolio. L’intenzione dell’Iran sarebbe quella di rafforzare la sua presenza nel Mar Rosso, tentativo che viene ostacolato da Israele, preoccupato da eventuali attività ostili contro le sue navi. L’Iran, infatti, ha mire egemoniche sullo stretto di Bab el-Mandab e la rotta navale fino al Canale di Suez.

I temi trattati sinora evidenziano le ragioni del prepotente ritorno dell’Eritrea al cnetro dell’agenda della Comunità Internazionale. Le condanne al regime di Afewerki si stanno facendo sempre più diffuse, mentre il sistema di potere interno, basato sulla dittatura dei militari, inizia a scricchiolare. I rapporti tra il dittatore Afewerki ed i militari, infatti, rappresentano l’ago della bilancia della tenuta del regime. Se la dittatura dovesse cadere in modo traumatico, i risvolti sarebbero problematici per l’intera regione, dal momento che i traffici potrebbero intensificarsi, sfruttando la profonda instabilità che caratterizza gli Stati Africani all’indomani della caduta di un regime pluridecennale. Per evitare questo scenario, sarebbe necessario implementare e favorire la cooperazione regionale, attualmente frenata dalle reciproche rivendicazioni confinarie, che potrebbe trainare lo sviluppo economico. In tal senso si sta muovendo l’Unione Europea, che il 15 marzo ha approvato una risoluzione in cui ha chiesto ai governi di Egitto e Israele di intervenire per combattere il traffico di uomini e armi e lo scorso 6 novembre ha accolto la richiesta d’aiuto del Sudan per contrastare il passaggio di migranti e armi sul proprio territorio.

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