domenica 15 dicembre 2013

Esplode l’orrore dei profughi schiavi contro l’indifferenza dei “potenti della terra”

 di Emilio Drudi

Ha un volto il dossier sul traffico internazionale di esseri umani presentato giorni fa a Roma, alla Camera. E’ quello di Berham, un diciottenne eritreo, di corporatura smilza e dallo sguardo carico di sofferenza. Una foto lo ritrae a Lampedusa sul sentiero che scende verso la Spiaggia dei Conigli, proprio di fronte a quel tratto di mare dove all’alba del 3 ottobre, ad appena 800 metri dalla riva, è affondato il barcone con a bordo, stipati all’inverosimile, quasi 500 profughi. Lui è uno dei pochi superstiti della sciagura che ha commosso il mondo intero, accendendo per qualche giorno i riflettori sulla tragedia dei rifugiati che a migliaia, ogni anno, sono costretti a lasciare il proprio paese per fuggire da guerre e persecuzioni. Cessata l’emozione e spenti i “riflettori”, però, già oggi, a poco più di due mesi di distanza, il ricordo si è affievolito. Anzi, rischia di essere seppellito del tutto. Come la vita di mille e mille altri Berham, ingoiati dal Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Europa, morti di sete e di stenti nella traversata del deserto verso le sponde del Nord Africa o il confine di Israele nel Sinai, uccisi dalle fucilate delle guardie di cento frontiere, spariti nel girone infernale dei trafficanti di uomini.
Proprio per questo è stato elaborato quel dossier, illustrato prima a Bruxelles, all’Unione Europea, e poi a Roma, tappa di un giro tra varie capitali: Londra, Washington, Tel Aviv, il Cairo, Addis Abeba. Per non dimenticare e per scuotere le coscienze. Per spingere a farsi carico di questa tragedia l’Onu, la Ue, le cancellerie dei più importanti Stati del Nord del mondo. I “potenti della terra”, come li ha chiamati proprio a Lampedusa papa Francesco. Che non a caso per il primo viaggio pastorale del suo pontificato rivoluzionario ha voluto scegliere la piccola isola nel cuore del Mediterraneo, diventata faro di speranza per un numero infinito di fuggiaschi, gli ultimi tra gli ultimi. Non è stato facile mettere insieme quel documento: ci sono voluti anni di ricerche condotte da due professori dell’università di Tilburg, Miriam van Reisen e Conny Rijken, insieme a Meron Estefanos, una giornalista eritrea esule a Stoccolma, e con la collaborazione di organizzazioni umanitarie e operatori che vivono ogni giorno il dramma dei rifugiati, come don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. Il risultato è esplosivo.
La storia di Berham è emblematica di tutto quanto emerge dall’inchiesta. Il suo calvario è durato tre anni. Ne aveva solo 15 quando ha lasciato l’Eritrea per non essere condannato a trascorrere tutta la vita sotto le armi, al servizio del dittatore Isaias Afewerki. Dopo dodici mesi si è ritrovato schiavo in una delle “case di tortura” dei predoni del Sinai che danno la caccia ai profughi come lui per chiederne il riscatto. Gli hanno gettato plastica fusa sulla pelle nuda, lo hanno tormentato con scariche elettriche e ferri roventi, picchiato sistematicamente. Un trattamento al quale spesso veniva sottoposto mentre era costretto a telefonare ai familiari, perché ne ascoltassero le urla di dolore e si piegassero a pagare 38 mila dollari per liberarlo da quell’inferno. Era in un gruppo di dodici: ne sono sopravvissuti soltanto sei. E, una volta rilasciato, la sua odissea non è finita. Arrivato al Cairo con mezzi di fortuna, è stato arrestato e spedito a sue spese ad Addis Abeba perché, per non essere costretto a rientrare in Eritrea, si è finto etiope. Dall’Etiopia ha poi raggiunto la Libia, dove è finito in mano ai miliziani islamisti, in uno dei famigerati campi di detenzione spacciati per centri di accoglienza, sino a che ha trovato il modo di imbarcarsi clandestinamente sul barcone poi naufragato a Lampedusa. “Con me nel lager dei predoni beduini – ricorda – c’era anche una giovane con un bambino di sei mesi. Sono stati entrambi duramente seviziati più volte. Quando il piccolo aveva due anni, la madre è morta sotto tortura e lui è stato preso da un altro ostaggio che, liberato, lo ha portato con sé a Tel-Aviv. Ora credo che sia in un orfanotrofio in Israele”.
Un altro fuggito da Asmara per non diventare un soldato bambino, costretto poi a restare nell’esercito una vita intera, fino a 55 anni, è Temesgen, un quindicenne tutto pelle e ossa e dagli enormi occhi neri. Quando è stato salvato, sembrava appena uscito da un lager nazista. Per oltre tredici mesi è stato tenuto in schiavitù nel deserto dalla banda che l’ha catturato mentre stava cercando di trovare rifugio in Israele. “I suoi aguzzini – ha raccontato al convegno di Roma Alganesh Fisseha, la presidente della fondazione Ghandi – l’hanno tenuto senza mangiare per quasi 60 giorni. Per ‘punirlo’ e per spingere i parenti a pagare il riscatto richiesto per lasciarlo andare. Quasi due mesi con a malapena un tozzo di pane vecchio e un sorso d’acqua ogni tanto per sopravvivere”.
Berham e Temesgen ora sono liberi. Tantissimi giovani, però, non hanno avuto la loro forza e la stessa fortuna. Secondo quanto hanno riferito Miriam van Reisen e Meron Estefanos, si calcola che tra il 2009 e il 2013 siano finiti nel girone del Sinai da 25 a 30 mila profughi. Di migliaia si è persa ogni traccia. Di alcuni sono stati ritrovati i cadaveri abbandonati nel deserto, corpi mutilati dalle torture: qualcuno, martoriato da profonde incisioni, era anche privo di parte degli organi. Soprattutto i reni. Altri disperati ce l’hanno fatta ad essere rilasciati, ma quasi tutti restano segnati per sempre da questo inferno, nel fisico e nello spirito: più di qualcuno non è riuscito a vincere o anche solo a sopportare il ricordo, l’incubo, dei mesi, spesso degli anni, passati in catene. Ed ha deciso di farla finita.
“I suicidi sono frequenti tra questi ragazzi: molti non riescono più a riconciliarsi con la vita”, conferma don Zerai. Non è facile, del resto, tornare a credere nella vita dopo quel lungo, interminabile tunnel di orrore. Daniel Eyosab Yonathan, un giovane sui vent’anni, ha subito sevizie così pesanti da aver perso l’uso di entrambe le mani. “Le violenze sessuali sono sistematiche, sadiche, accompagnate da torture indicibili e coinvolgono tutti gli ostaggi, uomini, donne, bambini. Spesso provocano la morte”, ha raccontato Meron Estefanos, riferendo testimonianze raccolte tra i superstiti. Molte ragazze restano incinte, ma continuano ad essere umiliate, picchiate, stuprate. “Una giovane donna ha partorito in catene – ha detto Miriam van Reisen – L’hanno torturata anche mentre dava alla luce il suo bambino, senza acqua né alcun tipo di strumento per tagliare il cordone ombelicale”.
Non c’è pietà: i trafficanti sono disposti a tutto pur di piegare la volontà dei loro schiavi. Quasi nessuno resiste. E la “taglia” richiesta è sempre più alta. Dai 6-7 mila dollari a testa del 2009 si è saliti rapidamente ai 40-50 mila di oggi: una esistenza intera di lavoro per una realtà come il corno d’Africa, dove la maggioranza della popolazione ha un reddito di appena due dollari al giorno. Così il giro d’affari è enorme. “Si calcola che in cinque anni il racket abbia incassato qualcosa come 600 milioni di dollari”, si legge nel dossier. Una cifra da capogiro, che alimenta poi il contrabbando di armi per le bande che si contendono la supremazia nella regione, che finanzia il terrorismo, ma che viene anche riciclata in attività economiche “pulite”, come è accaduto con i proventi della pirateria somala. L’organizzazione criminale che tira le fila di questa tragedia, infatti, ha assunto dimensioni internazionali: non a caso i riscatti vengono ormai pagati quasi tutti in Europa, attraverso agenzie di money transfer. E’ una vera e propria mafia, che non tollera resistenze e ribellioni.
Neanche l’eventuale liberazione, come dimostra la storia di Berham, pone fine al dramma. La strada verso Israele si è chiusa da quando è stata innalzata una barriera impenetrabile sul confine del Sinai: una selva di filo spinato e sensori elettronici lunga centinaia di chilometri, per impedire qualsiasi infiltrazione. L’Egitto riserva ai profughi arresti, carcere, processi sommari e rimpatri forzati: chi ha i mezzi per pagarsi il biglietto aereo viene rispedito nel suo paese; chi non li ha, resta in prigione, a tempo indeterminato, finché non si trova qualcuno disposto a coprire le spese del viaggio. Ma per molti, in particolare per gli eritrei, ritornare a casa significa finire in carcere o peggio, come disertori. Allora, chi può punta sulla Libia: direttamente dall’Egitto oppure ripartendo dall’Etiopia e attraversando il Sudan e il Sahara. In Libia, tuttavia, la sorte di questi disperati non è migliore: li aspettano le fucilate dei militari che pattugliano il confine e, una volta varcata fortunosamente la frontiera, lager dove accade di tutto: violenze, maltrattamenti quotidiani, torture, lavori forzati, stupri, ricatti. E dove fame e sete sono la norma, perché spesso viene negata persino l’acqua da bere. Con la complicità indiretta dell’Italia la quale, in base a tre successivi accordi bilaterali, ha affidato proprio alla Libia il ruolo di “gendarme” contro l’immigrazione clandestina attraverso il Mediterraneo, benché Tripoli non abbia mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e neghi senza remore gli stessi diritti umani più elementari. Chiunque entri nel paese in modo irregolare, in sostanza, è considerato un criminale, non un profugo. Se viene catturato precipita in un vortice dal quale può uscire solo pagando un riscatto ai carcerieri: sono sempre più frequenti le segnalazioni di miliziani e poliziotti corrotti che si prestano a questo mercato crudele, pretendendo forti somme dai prigionieri e, non di rado, indirizzandoli poi al giro di trafficanti che, sempre a caro prezzo, si occupano del trasbordo verso l’Italia su vecchie carrette non più in grado di reggere il mare. Navi a perdere come quella affondata a Lampedusa.
Si tratta di un’emergenza internazionale. Ignorata e sottaciuta. Ecco perché il dossier, questa denuncia forte portata in tutto il mondo. Perché i “potenti della terra” se ne facciano carico, uscendo finalmente dalla loro indifferenza. “La soluzione vera – ha ammonito don Zerai, a nome anche di Miriam van Reisen, Meron Estefanos e Alganesh Fisseha, gli altri tre relatori dell’incontro di Roma – si avrà soltanto rimuovendo le cause che, nei paesi d’origine, spingono migliaia e migliaia di giovani a fuggire. Ma intanto ci sono numerosi interventi che possono essere attuati nell’immediato o a breve e medio termine. Il primo è l’istituzione di ‘corridoi umanitari’ per l’emigrazione dei profughi, in modo da evitare che l’unica via possibile siano i viaggi alla ventura nel deserto e le traversate clandestine del Mediterraneo. Si tratta, in sostanza, di istituire nei paesi di transito o di prima accoglienza un sistema che permetta ai fuggiaschi di presentare la richiesta di protezione internazionale, con l’ausilio del Commissariato Onu, della Ue, delle ambasciate e dei consolati dei vari stati, europei e africani. Inoltre, provvedimenti che consentano ai profughi di inserirsi nelle stesse nazioni dove sono scappati, in Africa, attraverso programmi di lavoro, studio, assistenza. La maggior parte di loro, infatti, non pensa all’Europa. Preferisce restare non lontano dal proprio paese, con la speranza di rientrare prima possibile. A spingere molti a tentare di varcare il Mediterraneo, anche a costo di affidarsi ai trafficanti di uomini, è la mancanza di prospettive: la visione di un futuro fatto solo di anni di attesa senza speranza, nel chiuso dei campi profughi. Con condizioni di vita dignitose sul posto e un filtro adeguato, invece, il flusso verso l’Europa si ridurrebbe ai casi dei perseguitati più a rischio, ai ricongiungimenti familiari, a chi ha bisogno di una protezione particolare, ai malati gravi… Alle situazioni, insomma, che in Africa non possono trovare soluzione”.
Tra i provvedimenti attuabili da subito sono state prospettate iniziative di sostegno, da parte dell’Europa, in favore dei paesi di prima accoglienza dove i profughi sono più numerosi (Etiopia, Sudan, Kenya, Uganda, Libano, Giordania) attraverso progetti di assistenza e istruzione, di piccolo prestito, cooperazione, promozione lavoro. Un esempio positivo viene dall’Etiopia, che si è fatta carico di mille borse di studio per i giovani eritrei presenti nei campi. Italia ed Europa potrebbero favorire e ampliare questo programma e promuoverne di analoghi in altri paesi. Per attuarli servono molte meno risorse di quelle impegnate per i pattugliamenti con navi da guerra del Canale di Sicilia, decisi dopo la tragedia di Lampedusa, con le operazioni Frontex e Mare Nostrum. E i risultati sarebbero certamente migliori.
Più in generale, si tratta di impostare una nuova politica di accoglienza, in Italia e in Europa, più aperta e in grado di inserire nel tessuto sociale richiedenti asilo, profughi e migranti. Il che implica, automaticamente, la revoca di trattati bilaterali come quello Italia-Libia, che finiscono per aggravare, anziché risolvere, la tratta di esseri umani. Accordi internazionali tra più stati, semmai, sono necessari per promuovere indagini di polizia congiunte, con la collaborazione dell’Interpol, contro le mafie che gestiscono la tratta. “Si potrebbe partire – ha detto Meron Estefanos – dalla ‘via dei soldi’ pagati per il riscatto: seguire i canali attraverso cui il denaro si muove può rivelarsi la chiave per individuare i vertici dell’organizzazione. Senza fermarsi agli scafisti e alla manovalanza”.

Un primo risultato il convegno di Roma lo ha ottenuto. Emilio Ciarlo, consigliere politico del viceministro degli esteri, si è impegnato a proporre al Parlamento una commissione d’inchiesta sul traffico internazionale di esseri umani. Può essere un passo importante. Portare il problema direttamente nelle aule della Camera e del Senato significa porlo al centro dell’attenzione del Paese e della stessa Unione Europea. E magari incrinare finalmente il muro che la “fortezza Europa” ha innalzato contro i profughi spingendo la sua “barriera di confine” sempre più a sud, fino alle sponde meridionali del Mediterraneo e addirittura alla frontiera sahariana della Libia.

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