venerdì 18 ottobre 2013

Eritrea: rischia di esplodere la “bomba” della tragedia di Lampedusa

di Emilio Drudi
“Sono andati laggiù col pretesto di identificare i morti ma, in realtà, per identificare i vivi”: gli eritrei della diaspora, le associazioni dei rifugiati e i movimenti di opposizione al regime, non sembrano avere dubbi sulla visita a Lampedusa da parte di Zemede Tekle, ambasciatore di Asmara a Roma. Il diplomatico si è recato sull’isola a dieci giorni di distanza dalla tragedia. Come primo atto ha cercato di avvicinare i superstiti, direttamente o attraverso i funzionari del suo seguito.
C’è stata una tragedia enorme, con centinaia di vite perdute: sembrerebbe normale che un ambasciatore senta il dovere di accorrere ad ascoltare, a portare una parola e un gesto di solidarietà ai connazionali che ne sono stati travolti. Solo che quei disperati, i morti e i sopravvissuti, fuggivano e fuggono ancora proprio dal regime che quel diplomatico rappresenta. E’ lui, in Italia, il volto del governo che quella gente rifiuta. E infatti quasi tutti non hanno voluto ascoltarlo, denunciando senza esitazioni che dalla loro ambasciata vogliono tenersi lontani: non ne riconoscono la legittimità così come non riconoscono la legittimità della dittatura di Iasaias Afewerki che li ha costretti a fuggire per sottrarsi a persecuzioni e carcere, fame e guerra. Zemede Tekle, in una intervista televisiva, ha negato di essere stato “rifiutato”. Ha sottolineato, anzi, di essere stato accolto a Lampedusa con simpatia e riconoscenza dai rifugiati ed ha assicurato che il suo governo si farà carico di riportare in Eritrea tutte le salme, come gli hanno chiesto i familiari delle vittime. Ma la diaspora insiste: “Quando si sono resi conto di chi avevano di fronte – riferiscono Miriam e Tseghehans, due giovani esuli, esponenti del movimento Eritrean Youth Solidarity for Change (Eysc), che dopo la sciagura si sono precipitati a Roma da Francoforte e Milano – i nostri fratelli lo hanno allontanato. Lui e quelli che erano con lui”.
In effetti, ci sarebbe da stupirsi del contrario: se cioè avessero accolto l’ambasciatore con fiducia e amicizia. Proprio perché si tratta di esuli e richiedenti asilo. Lo sapeva bene anche lo stesso Zemede Tekle. Ma allora perché è andato? Non subito, oltretutto, ma diversi giorni dopo. L’opinione più diffusa è che si tratti di un tentativo di controllare e prevenire gli effetti della “bomba” che rischia di diventare per Asmara la tragedia di Lampedusa. La notizia in Eritreea è stata inizialmente sottaciuta o comunque almeno in parte travisata: si è detto di un naufragio di migranti africani irregolari, tra i quali anche alcuni eritrei. Ma altroché “alcuni eritrei”: a parte due sudanesi e sei somali, i morti sembra siano eritrei quasi tutti, ben 357 su 365. Una cinquantina sono stati già identificati dai familiari e quasi altrettanti dai compagni che erano sul barcone affondato, ma anche quelli ancora senza nome sono giovani scappati dall’Eritrea. Lo affermano i sopravvissuti: si conoscevano e hanno percorso insieme l’ultimo tratto del cammino della speranza verso l’Europa, dal concentramento nel porto di partenza, in Libia, all’imbarco e poi alla traversata fino a mezzo miglio da Lampedusa.
Forse è la più grave catastrofe degli ultimi anni per la popolazione eritrea. “E’ una strage nata dalle condizioni invivibili in cui è precipitato il paese – dicono vari esponenti della diaspora – Quei morti sono un autentico, pesante atto d’accusa contro il regime. I funerali di stato in Italia si sono rivelati una promessa vuota, nonostante l’impegno fosse stato preso ai livelli più alti: dal premier Letta e dai ministri Alfano e Bonino. Tuttavia se prima o poi, come chiedono in molti, si riuscirà a riportare in Eritrea, tutti insieme, questi poveri morti per seppellirli, sempre tutti insieme, nella loro terra, quel cimitero diventerà un sacrario: una specie di monumento alla sofferenza della popolazione ed una denuncia permanente della dittatura che ha costretto a fuggire quei disperati e ne ha fatto degli esuli, portandoli a trovare la morte in fondo al mare di Lampedusa. I luoghi parlano. Questo ‘luogo’ racconterà per sempre cosa accade oggi nel nostro paese. E potrebbe essere il primo passo per il cambiamento: l’inizio del nostro risorgimento e, dunque, l’inizio della fine del regime”.
Messa così si spiegherebbe l’iniziativa dell’ambasciatore: potrebbe essere il tentativo di dimostrare che quei giovani, uomini e donne, non sarebbero profughi scappati dalla dittatura ma semplici migranti irregolari, incappati in una storia più grande di loro e pronti ad accettare l’aiuto e la solidarietà del loro governo. In modo da far passare l’idea, in caso di nuovi sbarchi, che gli eritrei non vengono in Europa per sfuggire alla persecuzione e alla guerra, ma solo come immigrati in cerca di lavoro e, dunque, da respingere e rimpatriare dopo il primo soccorso. L’opposto di quanto è accaduto finora, visto che ad oltre il 75 per cento degli eritrei giunti in Occidente è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale. Potrebbe rientrare in questo contesto anche il tentativo di identificare e fotografare i superstiti. “Conoscendone l’identità – spiegano Miriam e Tseghehans – la polizia può risalire facilmente ai loro familiari e usarli quasi come ostaggi per ricattare i fuoriusciti, con la minaccia di ritorsioni, incriminazioni, imprigionamenti. I profughi lo sanno bene: è un modo per imbavagliarli e soffocare l’opposizione interna ed esterna. Per questo rifiutano qualsiasi contatto con l’ambasciata e, nella fattispecie, contestano la visita di Zemede Tekle a Lampedusa”.
Una conferma di una possibile strategia di questo genere da parte di Asmara tramite i suoi uffici diplomatici di Roma, viene dal fatto che quasi in contemporanea col viaggio dell’ambasciatore a Lampedusa, Derres Araia, delegato in Italia dei migranti eritrei fedeli al regime, è riuscito a farsi ricevere dal ministro Cecile Kyenge proprio per parlare del naufragio. In particolare, per risolvere il problema del rientro delle salme. Parlando col ministro, come riferiscono le agenzie, “ha chiesto a nome delle famiglie di poter riavere i corpi” delle vittime, assicurando che Asmara “ha già dato disposizione per affrontare le spese di trasporto e l’assistenza necessaria”. Ma quali salme? “Per quanto se ne sa – protestano vari portavoce della diaspora – soltanto quelle delle persone identificate, in modo da seppellirle singolarmente, dopo averle consegnate ai parenti. Le altre non vengono prese in considerazione: si dice in sostanza che, senza identificazioni certe e conferme ufficiali, non ci sono prove che si tratti di eritrei. Non basta la testimonianza dei compagni sopravvissuti”.
Se è così, l’obiettivo appare evidente: far decantare l’emozione suscitata dalla strage in Italia e, soprattutto, evitare il rientro e la sepoltura collettiva in un unico luogo simbolo. “Perché un sacrario così fa paura”, insistono gli oppositori del regime, aggiungendo: “Derres Araia ha detto al ministro di parlare a nome delle famiglie delle vittime. Ma i profughi e le loro famiglie fanno riferimento alla comunità degli eritrei della diaspora contrari al regime, mentre il gruppo rappresentato da Araia è tutt’altra cosa: non ha niente a che fare, in pratica, con gli esuli di Lampedusa, ma c’è da dubitare che lo abbia fatto capire al ministro”.

Don Mussie Zerai, il portavoce dell’agenzia Habeshia, è particolarmente duro su questo aspetto: chiama in causa Cecile Kyenge e chiede al governo italiano di seguire la situazione con molta più cautela e cognizione: “Il ministro Kyenge sembra non sapere con chi ha parlato. Quelli che si sono presentati come esponenti della Comunità Eritrea sono in realtà i sostenitori di Isaias Afewerki. Ma come è possibile non fare distinzioni tra i rifugiati e il regime o i suoi adepti? Derres Araia è uno dei più accaniti fan dell’attuale governo di Asmara. Più volte, ad esempio, è venuto a disturbare le conferenze nelle quali denunciavamo le malefatte e le prepotenze del potere. E mentre lui veniva ricevuto al ministero, mi risulta che funzionari dell’ambasciata eritrea, incluso lo stesso ambasciatore, giravano indisturbati a Lampedusa, cercando di incontrare i richiedenti asilo, chiedendo l’elenco dei loro nomi, fotografandoli. Non mi sembra una coincidenza casuale. Alla luce di tutto questo mi riesce difficile capire come il ministro Kyenge possa aver manifestato ‘un’ampia disponibilità a collaborare’. In particolare per gli interventi a favore dei giovani. E’assurdo, difatti, ignorare che in realtà la prospettiva di ogni giovane eritreo, uomo o donna non fa differenza, è quella di essere costretto ad entrare nell’esercito a 16 anni e a restarci sino a 40-50 anni di età. Una vita intera da militari a servizio del regime. Anzi, dei ras del regime. Anche per questo sono così tanti a scappare. Allora non ha senso piangere i morti di Lampedusa e magari le centinaia di altri scomparsi nel Mediterraneo con meno clamore e poi aprire vie di collaborazione con gli esponenti della dittatura che è alla radice di queste tragedie: che i giovani come quelli annegati nel mare italiano li sequestra per quasi tutta la vita e li getta in galera o peggio se cercano di ribellarsi. E ha ancora meno senso che, fatti saltare i funerali di stato promessi, alla frettolosa, raffazzonata cerimonia indetta ad Agrigento per ricordare le vittime, il governo italiano abbia invitato anche l’ambasciatore Zemede Tekle, uno dei rappresentanti di questa dittatura”.

Nessun commento: