venerdì 12 ottobre 2012

Libia: Basta dare la Caccia ai Profughi e Rifugiai


PROFUGHI, DOSSIER LIBIA

Soprusi, maltrattamenti, torture, soppressione feroce di ogni forma di protesta. Uccisioni anche a freddo. Ragazze stuprate e giovani donne picchiate, umiliate sotto gli occhi dei mariti o dei compagni. Lavoro forzato e pestaggi sistematici per chi si ribella. Insufficienza o addirittura mancanza di cibo e di acqua: anche quella per dissetarsi. Madri in stato di gravidanza, bisognose di cure e controlli, abbandonate a se stesse. Feriti e malati privi di ogni forma di assistenza medica. Non sfuggono a questo inferno nemmeno i bambini: di 6, 8, 10, 12 anni. Ma anche piccolissimi: di uno o due anni o persino di pochi mesi. E, per tutti, nessuna prospettiva che l’incubo possa cessare: nella migliore delle ipotesi, li aspetta una espulsione oltreconfine, in pieno deserto, o la riconsegna ai governi dei paesi dai quali questi disperati sono fuggiti, con negli occhi un sogno di libertà e di una vita dignitosa.
E’ quanto accade in Libia nelle carceri e nei centri di detenzione dove sono ammassati migliaia di migranti, profughi, richiedenti asilo. Gente che non avrebbe mai dovuto essere arrestata e varcare il portone di una prigione, “colpevole” solo di aver cercato scampo dalle persecuzioni e dalla fame. E accade nel silenzio quasi assoluto della comunità internazionale. Nell’indifferenza dei governi occidentali. Un’indifferenza “pelosa”, che nasconde spesso una vera e propria complicità, perché questo inferno nasce dalla politica di molti Stati europei sull’emigrazione: la “blindatura” delle frontiere anche di fronte a chi avrebbe diritto di asilo, ad esempio. Per non dire dei respingimenti indiscriminati in mare, una pratica di fatto mai cessata davvero nonostante la dura condanna pronunciata il 22 febbraio scorso dalla Corte Europea nei confronti dell’Italia, in base all’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura.

L’epoca di Gheddafi

Le radici di questa tragedia risalgono ai tempi della dittatura di Gheddafi. In particolare, a quando sono iniziati gli accordi con il rais per il controllo delle decine di migliaia di profughi arrivati in Libia dal Corno d’Africa e dalla regione sub sahariana, scacciati da guerre, persecuzioni, carestia. E’ a quell’epoca – siamo nel 2009 – che prende corpo in particolare l’intesa tra Italia e Libia che ha aperto le porte alla decisione di bloccare, con ogni mezzo, i tentativi dei migranti di imbarcarsi verso l’Europa, sfidando la sorte in mare dopo aver pagato a caro prezzo un posto su barche rottame, “carrette” buone solo per la demolizione. Ma, invece di colpire le organizzazioni criminali dei trafficanti che sfruttano il bisogno e la disperazione di migliaia di esseri umani, sono iniziate le retate e gli arresti in massa proprio dei profughi. E, per chi riusciva comunque a salire su una di quelle “carrette”, i respingimenti in mare. A prescindere: senza curarsi di identificare i disperati intercettati nel Mediterraneo e verificare se avevano diritto di essere accolti come rifugiati o esuli politici. Tutti: uomini, donne, ragazze incinte, bambini di tutte le età. Persone, cioè, che avrebbero dovuto essere aiutate e fatte entrare in Italia e in Europa in base alle convenzioni internazionali firmate dalla stragrande maggioranza dei governi occidentali e, spesso, anche in base alle norme costituzionali degli Stati che quelle persone cercavano di raggiungere. E’ il caso dell’Italia, ad esempio, come afferma il terzo comma dell’articolo dieci della Costituzione Repubblicana.
Il dramma dei 63 profughi eritrei e somali che tra i mesi di marzo e aprile 2011 sono stati abbandonati da tutti per 15 giorni, su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia e condannati a morire di sete e di stenti, nasce da questo: da questa scelta politica di chiusura totale. La tragedia (che è costata all’Italia una seconda condanna internazionale, questa volta da parte del Consiglio d’Europa di Strasburgo) è venuta alla luce perché 9 dei 72 giovani che erano a bordo di quel gommone si sono miracolosamente salvati. Ma sono decine le tragedie analoghe che si consumano senza eco ogni mese nel Mediterraneo, come dimostra il “conto delle vittime”: circa 1.500 l’anno, secondo gli ultimi accertamenti dell’Agenzia dell’Onu (Unhcr) e del Centro Italiano per i rifugiati.
Era prevedibile questo sbocco: centinaia, migliaia di morti e arresti in massa. Era prevedibile nel momento stesso in cui si è delegato il problema emigrazione a uno Stato, la Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei profughi e dei richiedenti asilo. La conseguenza diretta di questa scelta non poteva che essere la tragedia che si sta verificando ormai da anni e che continua a crescere. Una tragedia annunciata anche per la sorte delle migliaia di disperati finiti nelle retate della polizia libica. Perché tutti sapevano e sanno quali sono le condizioni di vita – se vita si può definire – di chi ha la sventura di entrare in un carcere o in un centro di detenzione in Libia. Di questo infatti si tratta: carceri e centri di detenzione. Lager e non centri di accoglienza come si tenta di far credere.

Rivolta contro Gheddafi: gli effetti sui profughi

La rivolta contro Gheddafi ha aggravato ulteriormente la situazione. I profughi del Corno d’Africa o dell’area sub sahariana, arrivati in Libia come tappa verso l’Europa o magari solo per cercare un lavoro, sono stati considerati in massa dai ribelli come militari mercenari al soldo del rais. Contro di loro, persino contro le donne e i ragazzi, si è scatenata una spietata caccia all’uomo, che ha portato ad arresti, pestaggi, esecuzioni sommarie, linciaggi. Solo la Diocesi cattolica di Tripoli ne ha assistito e protetto circa 2.500. Con l’esodo di tutti gli immigrati e lavoratori stranieri dal Paese, quando la rivolta è diventata guerra civile, anche eritrei, etiopi, somali, sudanesi, maliani hanno cercato di fuggire. Molti sono arrivati in Tunisia, passando fortunosamente la frontiera. Altri hanno tentato la sorte via mare, puntando su Lampedusa e la Sicilia. E in tanti sono morti durante la traversata.
La “caccia al nero” non è terminata nemmeno dopo la caduta di Gheddafi e la vittoria della rivoluzione. Anzi, a Tripoli, Bengasi e nelle altre principali città, si è spesso intensificata e dura tuttora. Come hanno riferito alcuni servizi giornalistici, oltre che dall’accusa indiscriminata nei confronti di tutti i “neri” presenti in Libia di essere non lavoratori immigrati ma ex mercenari di Gheddafi travestiti, questa persecuzione da parte delle milizie rivoluzionarie sarebbe alimentata anche da motivi razzisti e xenofobi: arabi contro africani, islamici fondamentalisti contro cristiani.


La situazione oggi

Oggi, dopo la stabilizzazione della situazione politica, le elezioni e l’insediamento del nuovo governo, l’inferno continua. La nuova Libia, che si è ribellata alla dittatura di Gheddafi ed è stata aiutata nella rivolta dalla grande coalizione militare Nato, guidata da Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America, in nome della democrazia e dei diritti umani, non appare poi tanto diversa da quella precedente, spazzata via dalla rivoluzione.
Nuovi trattati internazionali. Nel febbraio scorso è stato rinnovato il trattato di collaborazione e amicizia tra l’Italia e la Libia. Si tratta di un accordo generale, che ricalca sostanzialmente quello sottoscritto nel 2009 dal premier Silvio Berlusconi con il colonnello Gheddafi. Per la gestione di alcuni problemi specifici, al momento della firma si è stabilito di studiare ed arrivare ad accordi particolari bilaterali. Per il controllo sull’emigrazione l’intesa è stata firmata dal ministro degli interni Anna Maria Cancellieri e da quello libico Fawzi Al Taher Abdulali il 3 aprile scorso.
Da più parti, già alla vigilia del rinnovo del trattato generale, in febbraio, in Italia si erano levate voci autorevoli per chiedere al premier Mario Monti di non firmare senza pretendere prima dal governo rivoluzionario, come condizione irrinunciabile, la garanzia del rispetto dei diritti umani e l’accettazione della Convenzione di Ginevra del 1951, con la possibilità di controlli e verifiche costanti, anche nei centri di detenzione, da parte delle commissioni internazionali Onu ed europee e delle organizzazioni umanitarie. Particolarmente vivace e decisa la presa di posizione di Angelo Del Boca, lo storico italiano più esperto delle questioni africane e, in particolare, delle ex colonie italiane. Tutti gli appelli sono però caduti nel vuoto: Monti ha firmato senza garanzie. Lo stesso è accaduto in occasione della firma dell’accordo sull’emigrazione, due mesi più tardi. Anzi, il contenuto esatto dell’accordo di aprile è rimasto in pratica “segreto”: il Parlamento italiano non ne ha discusso e si è riusciti a conoscerne i termini essenziali soltanto dopo una decisa campagna condotta da Amnesty International e grazie alla tenacia di alcuni giornalisti. Si è così scoperto che anche per il controllo dell’emigrazione l’Italia ha in pratica confermato le linee dell’intesa precedente, quella fortemente voluta dall’allora ministro degli interni Roberto Maroni, esponente della Lega Nord, duramente condannata dalla Corte Europea per i diritti umani.
Scarse o addirittura assenti le reazioni della “politica” dopo queste rivelazioni, sia in Italia che in Libia. Amnesty International ha però lanciato una campagna a livello nazionale ed europeo per chiedere al governo Monti la revoca unilaterale dell’accordo Cancellieri-Abdulali, raccogliendo migliaia di adesioni.  
Respingimenti in mare. Non sono cessati i respingimenti indiscriminati in mare. L’ultimo episodio noto risale al 29 giugno scorso. Un vecchio barcone da pesca è stato intercettato in acque internazionali mentre tentava di raggiungere la Sicilia. A bordo erano in 76, quasi tutti giovani eritrei e richiedenti asilo, con donne e bambini. Navi militari hanno condotto tutti su una piattaforma petrolifera in acque libiche, dove l’intero gruppo di migranti è stato preso in consegna dalla polizia di frontiera, condotto al porto di Tripoli e trasferito nel centro di detenzione di Sibrata Mentega Delila. Secondo i profughi l’operazione è stata condotta in collaborazione da unità navali libiche e italiane: dicono di esserne certi perché libica e italiana erano le bandiere che sventolavano a poppa delle navi intervenute nell’operazione.
Le carceri. Nelle carceri migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire. E non cessa la “caccia al nero” che continua a riempirle: arresti sistematici nel sud del paese di giovani che hanno appena passato la frontiera, retate nelle principali città e sulla costa, rastrellamenti ad opera dei reparti di miliziani fondamentalisti, che non hanno mai deposto le armi dopo la caduta e la morte di Gheddafi. Sono più di venti i centri di detenzione attualmente operativi: si va dalle vecchie prigioni del regime, ad aree di sorveglianza organizzate presso caserme e campi militari, a strutture che dovrebbero essere centri di accoglienza ma funzionano in realtà come carceri a tutti gli effetti. Attraverso le denunce e le testimonianze di detenuti, profughi, operatori umanitari, giornalisti, l’agenzia Habeshia ha messo a punto un dossier che, sia pure parziale, fornisce dati e informazioni molto eloquenti sulla realtà generale.
Il rapporto prende in considerazione tre degli oltre venti centri di detenzione libici: Bengasi, Homs e Twaisha (Tripoli). Molto importanti, inoltre, le notizie messe insieme sulla base di varie denunce ricevute nei giorni o nei mesi scorsi su Sibrata Mentega Delila, Kufra, Gianfuda, Mishrata, Zawya e Sharimetar.
Bengasi. Circa quattrocento prigionieri. Questo centro, situato a Medina Riyada, vicino allo stadio, è gestito teoricamente dalla “Mezzaluna Rossa”, ma in realtà comandano i miliziani armati della rivoluzione, che si dichiarano jihaidisti: entrano quando vogliono e dispongono dei detenuti a loro piacimento. “Gli operatori umanitari che talvolta vengono – ha raccontato uno dei detenuti – non possono fare nulla: registrano i nostri nomi, ci contano e basta. Poi tutto è in mano alle guardie”. Quasi tutti i locali di detenzione sono ricavati da vecchi container, dove i prigionieri sono stipati per quasi l’intera giornata, sotto un sole rovente, senza poter uscire. Il cibo, scarsissimo, più di qualche volta non arriva. Manca del tutto un servizio medico, anche minimo: un giovane, ferito in gennaio a Kufra, negli ultimi tre mesi non ha ricevuto alcuna cura nonostante si sia sviluppata una grave infezione; ci sono donne incinte abbandonate a se stesse e due bambini sono nati in un container, senza alcuna assistenza.
Diverse donne sono state violentate: per vincerne la resistenza gli aguzzini le hanno colpite più volte con una pistola elettrica, un sistema di punizione sempre più diffuso nei confronti dei prigionieri. Almeno 140 uomini sono stati portati via per farli lavorare come schiavi: o al servizio dei militari (spesso vengono utilizzati per caricare e scaricare munizioni), oppure presso tenute agricole e aziende di personaggi vicini ai gruppi fondamentalisti islamici. L’ultimo “prelievo” forzato risale al 2 ottobre scorso: 15 detenuti sono stati presi nelle loro celle e scortati fuori dal campo. Non si sa che fine abbiano fatto. Anche i più giovani, ragazzini minorenni, non sfuggono alle botte e alle torture. Secondo alcuni testimoni, anzi, i miliziani avrebbero inventato un ‘gioco’ terribile proprio sulla pelle di questi ragazzini: una sorta di tiro a segno con bersagli umani. Eviterebbero di colpirli ma anche così, se è vero, resta una forma di tortura orrenda. Per puro, sadico divertimento. Come facevano le SS nei campi di sterminio con i bambini ebrei.
Le ultime notizie parlano anche di discriminazioni e persecuzioni religiose. I miliziani costringono tutti a pregare secondo la fede islamica. Durante il periodo di ramadan hanno obbligato anche i cristiani ad osservare il digiuno come i musulmani. Chi si rifiutava veniva pestato a sangue. Vale per tutti la legge coranica: i simboli cristiani o eventuali effigi di santi, ecc. sono proibiti, alle donne sono state strappate le croci che portavano al collo, chi ha un tatuaggio ricollegabile al cristianesimo lo deve tenere nascosto o viene picchiato duramente. Le donne devono coprirsi e portare il velo. Molte famiglie sono state divise perché, non avendo con sé documenti comprovanti il matrimonio, vale il principio che uomini e donne non possono stare insieme: può capitare così che moglie e marito finiscano in carceri diversi, senza avere più notizia l’una dell’altro. Agli uomini che tentano di difendere le loro donne vengono inflitte torture terribili. Una delle più frequenti è il finto annegamento: la vittima viene immersa con la testa sott’acqua fin quasi a soffocarla e tirata fuori solo all’ultimo momento. Per più volte. Le frustate come punizione sono pratica quotidiana. E uno dei “divertimenti” preferiti delle guardie, dopo queste torture, è far rotolare le vittime nel fango, come segno di estrema umiliazione.
Ultimo contatto oggi 07.10.12 alle ore 15.00pm, che mi aggiornavano della situazione critica, i profughi che da tre giorni che non ricevono cibo, la situazione sta peggiorando, pare che alcuni operatori dell'UNHCR che si sono recati nel centro di detenzione abbiano detto "l'UNHCR non vi riconosce come rifugiati o richiedenti asilo, quindi quello che stiamo facendo per voi solo un atto di umanità, nei prossimi tre giorni dovete lasciare questo posto, noi vi diamo un contributo in denaro." ma i militari hanno minacciato ai profughi dicendo che nessuno tenti di la sciare questo campo, altrimenti verrà ucciso. In mezzo a queste due posizioni la vita dei profughi è seriamente messa in pericolo.
Chiedo che l'UNHCR si prenda in consegna queste persone, per sottrarle da ogni rischio, strumentalizzazione e sfruttamento. Più di qualcuno tenta la fuga per sottrarsi a queste vessazioni. Non ci riesce quasi nessuno. Quasi tutti quelli che vengono sorpresi mentre cercano di lasciare questo inferno o sono catturati nei giorni successivi, vengono uccisi: nessuno chiede conto alle guardie e alla polizia di questi omicidi.
Homs. Circa 570 detenuti, di cui 200 eritrei (cento uomini e 30 donne) e gli altri provenienti da Somalia, Etiopia, Nigeria, Mali, Sudan. Le ultime donne, 28 in tutto, di varia nazionalità, sono state registrate il 3 ottobre, dopo essere state bloccate nei giorni precedenti in diverse località: la sera stessa sono state picchiate duramente soltanto perché avevano chiesto un po’ d’acqua da bere. Poi, durante la notte, le guardie si sono accanite contro un ragazzo: uno dei miliziani lo ha svegliato verso le due, facendolo uscire dal camerone dove stava dormendo. Giusto il tempo di varcare la soglia e gli sono saltati addosso tutti insieme, gridando che stava cercando di fuggire e pestandolo a sangue: non si sono fermati neanche quando ha perso conoscenza. Un massacro immotivato, per puro, sadico “divertimento”.
Sono arrivate numerose segnalazioni secondo cui i militari libici stanno costringendo i profughi prigionieri a farsi registrare presso le ambasciate dei paesi d’origine. E’ il preludio all’espulsione: la riconsegna allo Stato che li vessava al punto da costringerli a scappare. Chi si oppone viene “convinto” a furia di violenze e torture. Si tratta chiaramente di una procedura in contrasto con ogni diritto internazionale. Viene violata apertamente, in particolare, la convenzione dell’Unione Africana che tutela i diritti dei profughi e dei richiedenti asilo politico. Alle donne malate o in stato di gravidanza, bisognose di controlli medici, viene negato qualsiasi tipo di assistenza. Ogni accenno di protesta viene punito. Anche con la morte, come è capitato a quattro giovani: tre eritrei e un somalo. Non mancano le violenze gratuite: un ragazzo eritreo è stato colpito a freddo con un coltello dai militari mentre dormiva, forse per “punizione” o come monito agli altri. Contro questa serie di soprusi le donne hanno organizzato uno sciopero della fame. La protesta è stata repressa selvaggiamente. I militari se la sono presa in particolare con un ragazzo, come capro espiatorio: prima è stato pestato di botte e poi gli hanno sparato, senza alcuna ragione. Vedendo quella scena orribile, molte donne, terrorizzate, hanno iniziato a urlare. I militari, per ridurle al silenzio, hanno picchiato anche loro e sparato numerosi colpi d’arma da fuoco.
Si moltiplicano le discriminazioni per motivi religiosi e si pretende che tutti i detenuti, anche se la maggioranza è di religione copta, osservi i precetti dell’islam.
Twaisha. E’ un carcere per detenuti comuni situato alla periferia di Tripoli, dove da anni funziona anche una grande sezione riservata agli stranieri senza documenti. E’ uno dei centri di detenzione più affollati: i profughi prigionieri sono attualmente oltre 600. Vi sono rinchiusi, per la precisione, 550 uomini (500 somali e una cinquantina di eritrei) e sessanta donne: 50 somale e dieci eritree. Tre delle giovani eritree sono in stato di gravidanza: una è all’ottavo mese. Tutti, incluse le donne incinte, soffrono per la mancanza di cibo e di acqua. Molti sono lì da oltre sei mesi, sottoposti a continui maltrattamenti. Chi ha tentato la fuga ed è stato ripreso, ha subito pesanti sevizie da parte dei militari di guardia: uno ha perso un occhio per le percosse, altri lamentano invalidità fisiche permanenti. Torture e punizioni con scosse elettriche sono all’ordine del giorno. In particolare contro gli eritrei, a molti dei quali viene imposto con la violenza di dichiarare non la loro vera nazionalità ma di essere migranti provenienti da uno dei paesi dell’Africa Occidentale. Ignoto il motivo di questa richiesta.
Sibrata Mentega Delila. E’ un grosso centro di detenzione ultimato da poco alla periferia di Tripoli. I prigionieri sono oltre 350, inclusi i 76 profughi intercettati in acque internazionali, nel canale di Sicilia, il 29 giugno, portati di forza su una piattaforma petrolifera in acque territoriali libiche e poi consegnati alla polizia di frontiera. Circa 50 dei 350 detenuti sono donne. Con loro, anche alcuni bambini di cui due piccolissimi: uno ha solo 18 mesi ed ha urgente bisogno di cure mediche.
Soprusi e violenze sono la norma quotidiana. Il 21 luglio, un ragazzo di 18 anni è stato preso a fucilate dalla polizia durante una manifestazione di protesta. Ferito all’addome, è stato ricoverato in ospedale in condizioni molto gravi. Gli agenti lo hanno presentato come un ex mercenario di Gheddafi, protagonista di una sommossa. In realtà è un profugo eritreo che, insieme ad altri giovani detenuti, affamati e disperati come lui, chiedeva solo da bere e da mangiare. E un trattamento più umano: era da due giorni che non ricevevano né cibo né acqua. Un altro prigioniero, un diciannovenne, è stato picchiato con una sbarra di ferro in testa: i compagni hanno riferito che i colpi gli hanno provocato una forte emorragia da un orecchio.
Pesanti maltrattamenti hanno subito anche numerose donne, una in avanzato stato di gravidanza: spaventate dagli spari e dal sangue, hanno cominciato a gridare e ad agitarsi ed i militari, per ridurle al silenzio, hanno scagliato loro addosso di tutto, incluse alcune robuste sedie di metallo.
Tutti i 350 prigionieri sono richiedenti asilo. Non c’è alcun motivo valido, dunque, per tenerle in prigione. Per di più in una condizione quotidiana di maltrattamenti e violenza. Ma anche nei loro confronti, come accade in altre carceri, vengono fatte pesanti pressioni perché acconsentano a farsi registrare presso le ambasciate dei paesi d’origine, come preludio all’espulsione e al rimpatrio. Non si tiene conto che per molti, specialmente gli eritrei, il ritorno coatto in patria equivale a una condanna a lunghi anni di carcere o addirittura alla pena capitale, perché in Eritrea l’espatrio clandestino è un reato equiparato alla diserzione, specie per chi è in età di leva. Età che dura fino a 50 anni e passa.
Sempre più frequenti anche le persecuzioni di carattere religioso. Quasi nessuno di quei 350 profughi è musulmano ma, secondo quanto ha riferito più di qualcuno, durante il ramadan sono stati costretti a digiunare e spesso, al tramonto, terminate le ore di astinenza, acqua e cibo sono stati distribuiti solo agli islamici. Tuttora devono rispettare le pratiche dell’Islam e subiscono pressioni perché si convertano.
Kufra. E’ un centro di detenzione situato nell’estremo sud, nella città nata intorno all’oasi nel deserto del Sahara, il primo che si incontra venendo dal confine meridionale e punto di riferimento della polizia per tutti i migranti e i profughi sorpresi dopo che hanno varcato la frontiera. Ricavato all’interno di una grossa base militare con un importante deposito di armi, secondo le ultime notizie, vi sono ammassati centinaia di giovani, uomini e donne, tenuti in condizioni quasi di schiavitù, costretti al lavoro forzato sotto la minaccia dei mitra, spesso senza cibo né acqua, in balia dei soldati che custodiscono il campo. Nei giorni della guerra civile si sono trovati spesso al centro di aspri combattimenti tra i due fronti, costretti dai miliziani a svolgere lavori per loro anche sotto le bombe e il fuoco della fucileria.
Tra i testimoni di questa situazione ci sono una ventina di ragazzi, tutti eritrei, che sono riusciti a mettersi in contatto telefonicamente con l’agenzia Habeshia a Roma, per chiedere aiuto. La loro storia è emblematica della sorte di migliaia di altri profughi. Fuggiti dall’Eritrea, sfidando il carcere e le fucilate delle guardie di frontiera, dopo essere riparati in Etiopia e in Sudan, sono riusciti a raggiungere la Libia con un avventuroso viaggio nel Sahara. Poco dopo aver varcato il confine del Fezzan, sono stati intercettati da una pattuglia di miliziani nelle vicinanze di Mesrué, a non molta distanza da Kufra. Portati tutti in stato di arresto al comando di zona, 16 sono stati trasferiti nel centro di detenzione di Kufra. Degli altri quattro – tre donne e un adolescente – rimasti a Mesrué, non si è avuta più notizia. A Kufra i 16 eritrei hanno trovato altri profughi presi prigionieri da poco, una trentina, tutti somali, anch’essi sorpresi nel deserto libico, poco al di qua del confine. Tutti sono stati costretti a lavorare per i soldati della base. E molti sono stati ricattati: alcuni militari hanno chiesto loro una taglia di 800 dollari per portarli in un luogo più sicuro. Una richiesta che fa pensare a un vero e proprio traffico basato sulla paura, come ai tempi di Gheddafi. Chi può pagare non esita a cedere all’estorsione. Gli altri restano in balia dei carcerieri.
Gianfuda. Circa 600 detenuti: oltre 100 sono eritrei, 80 etiopi, 150 somali, gli altri provenienti dal Sudan e da altri paesi dell’Africa sub sahariana e occidentale. Cibo e acqua vengono distribuiti solo ogni 4 o 5 giorni. Somali, eritrei ed etiopi sono apertamente discriminati per motivi religiosi. Per loro le razioni sono sempre più scarse rispetto agli altri, non ricevono sapone e detersivi per l’igiene personale, sono puniti e picchiati di continuo senza un motivo reale: basta un pretesto qualsiasi o il semplice “capriccio” dei carcerieri. All’inizio di ottobre quattro ragazzi eritrei sono stati massacrati di bastonate, calci e pugni, con la falsa accusa di aver tentato la fuga. Il giorno dopo lo stesso trattamento è stato riservato a tre somali.
Mishrata. Circa 250 prigionieri, quasi tutti migranti dall’Africa Occidentale. Gli eritrei sono soltanto 5, ma due di loro sono feriti gravemente per i continui pestaggi subiti dalle guardie fin da quando sono arrivati, verso tra il 15 e il 20 settembre: uno ha lesioni alla testa, l’altro un braccio spezzato. Non hanno mai ricevuto alcuna cura medica. Anzi, continuano ad essere oggetto di maltrattamenti e soprusi.
Zawya. I detenuti sono quasi 500, di cui 65 eritrei e 23 somali. Al momento dell’ingresso nel centro, le guardie hanno tolto a ciascuno di loro tutto il denaro che aveva. Formalmente si tratterebbe di un sequestro, in realtà è un vero e proprio furto, seguito da continue prepotenze, specie nei confronti di chi cerca di protestare. Le condizioni di vita generali sono simili a quelle degli altri campi: poco cibo, acqua scarsa e negata spesso per punizione o per un arbitrio gratuito, sovraffollamento negli alloggi, nessuna assistenza medica. Un giovane ha un piede spezzato, ma non ha ricevuto cure di nessun genere.
Sharimetar. Situato nei sobborghi di Tripoli, questo centro di detenzione ospita  un centinaio circa di migranti e profughi: 35 sono eritrei e 10 somali, le vittime “preferite” dei maltrattamenti quotidiani da parte dei militari di guardia. La razione di cibo si limita a una pagnotta di pane raffermo e a un po’ d’acqua ogni 48 ore. Nient’altro. Pestaggi e punizioni, invece, arrivano ogni giorno, specie per chi osa appena accennare a una protesta. Per feriti e malati non c’è alcuna forma di assistenza medica.    


Altre testimonianze.

La conferma di queste denunce e di come sia soffocato e ignorato l’inferno che si vive nelle carceri e nei centri di detenzione in Libia viene anche da una serie di testimonianze che, raccolte per telefono e rese note dalla Fondazione Integra/Azione, sono state pubblicate dal quotidiano La Repubblica nel luglio scorso. Come quella di Debesay, un ragazzo eritreo arrestato a Bengasi mentre, insieme ad altri giovani, cercava un imbarco per l’Italia, dove è rifugiata sua madre. “Qui in carcere – ha raccontato – siamo disperati, frustrati. Abbiamo provato a uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie. Scappare non è possibile: se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce. In una cella di 30 metri quadrati siamo accalcati in più di 60, dormiamo per terra, non ci sono brande ma solo materassi sporchi o stuoie sul pavimento. Il mangiare, il più delle volte, è solo pane secco e acqua. Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte”.
Altrettanto drammatica la testimonianza di Mogos, un diciassette originario di Asmara, fuggito da un campo di addestramento dell’esercito eritreo e finito in carcere a Gianfuda. “Abbiamo viaggiato per 12 giorni nel deserto. Eravamo in 50, ammassati su un camion. Vicino al mare, verso Tripoli, quando sembrava fatta, i militari libici mi hanno preso insieme ai ragazzi che erano con me. La cosa più dura è non vedere il futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare” Alcuni detenuti – ha spiegato infatti la Fondazione Integra/Azione – vengono comprati da ricchi libici come forza lavoro per le proprie aziende o fattorie, ma questa “fortuna” è riservata soltanto a chi ha il passaporto, subito sequestrato al momento dell’ingaggio per scongiurare qualsiasi tentazione di fuga. “Noi eritrei il passaporto non l’abbiamo – ha aggiunto Mogos – e così non possiamo uscire neanche per lavorare come schiavi. Per noi non c’è soluzione. Nessun futuro. A 17 anni sono bloccato qui all’inferno”. Anwar è un etiope di etnia oromo, la regione del sud del paese dove è forte l’opposizione al governo centrale di Addis Abeba: “Sono stato fatto uscire dalla prigione di Gianfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Poi, pagando, sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare… Sono stato prigioniero prima a Kufra e poi a Gianfuda. E’ stato terribile: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo cibo, non c’erano medicine né dottori. In Libia non ci sono diritti”.
Storie analoghe sono state raccontate da tanti altri. Come Aroon e Meron, eritrei, o Salua, somala. Urla disperate dall’inferno. Ma nessuno sembra volerle ascoltare. Proprio come accade da oltre due anni per la tragedia parallela dei profughi schiavi nel Sinai, centinaia, migliaia di giovani eritrei, somali, etiopi, catturati dai predoni beduini mentre tentano di varcare la frontiera con Israele e tenuti incatenati in prigioni improvvisate, container interrati nel deserto, fino a che non viene versato un riscatto di 30-35 mila dollari. Con la minaccia costante di essere uccisi, perché chi non è in grado di pagarsi la libertà viene sacrificato per il traffico di organi che alimenta il mercato dei trapianti clandestini. Un’autentica, gravissima, sottaciuta emergenza umanitaria internazionale. Il “caso Libia” rischia di diventare un’emergenza altrettanto devastante.
 Don Mussie Zerai
                                                                                                       Fribourg, ottobre 2012   

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