domenica 18 luglio 2010

Trappola per i profughi eritrei

di Umberto De Giovannangeli Non sanno dove andare. Non sanno come andare. Senza documenti. Senza permessi. Senza soldi. Senza un mezzo di trasporto. Nel deserto. A mille chilometri da Tripoli. Se essere liberi significa passare da un lager, quello di Brak, ad un Centro di detenzione, quello di Sabha; se essere liberi significa non essere più picchiati ogni due ore ma «solo» obbligati a firmare un documento in cui si ammette di essere colpevoli del reato di immigrazione clandestina... Se essere «liberi» significa questo, allora gli oltre 200 eritrei segregati per giorni a Brak, nel sud della Libia, liberi lo sono. Liberi di essere riarrestati per mancanza dei permessi necessari per muoversi in Libia; liberi di finire dentro un’altra volta in una delle retate organizzate dalle forze di polizia e dall’esercito del Colonnello Gheddafi contro i «nemici della sicurezza nazionale»: eritrei, somali, dissidenti... Liberi di restare ostaggi in un Paese che non riconosce il diritto di asilo. SENZA META Di certo, gli oltre 200 eritrei vittime di questa allucinante vicenda, sono stati fatti uscire dal carcere di Brak, per essere portati in un altro centro di detenzione: quello di Sabha. Mussie Zerai, il sacerdote eritreo responsabile responsabile dell’ong Habesha, (un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani in Italia), ha avuto modo di parlare, ieri mattina, con alcuni di loro. La situazione resta allarmante: non sono in possesso di alcun documento per potersi muovere liberamente né per lavorare. «Così non possiamo andare da nessuna parte, al primo posto di blocco veniamo fermati e arrestati di nuovo», afferma uno dei 200 «liberati». Senza documenti né permessi, dovrebbero raggiungere Tripoli, attraversando aree desertiche, superando posti di blocco, cercando una improbabile via di fuga. Liberi, con zero garanzie. Nessuno - funzionari di agenzie Onu, funzionari di ambasciate di Paesi terzi - ha potuto avvicinarli, per sincerarsi delle loro condizioni, per registrare le loro richieste. Per esigere dalle autorità libiche notizie dei 5 «desaparecidos». I CINQUE SCOMPARSI Si tratta di cinque uomini che facevano parte del gruppo degli eritrei deportati a fine giugno dal Centro di detenzione di Misratah a quello di Brak, di cui non si ha più notizia. Non è la prima volta che accade. La prassi si ripete: i servizi di intelligence libici individuano nel gruppo incarcerato i potenziali, o già tali, leader. A quel punto queste persone vengono portate vie e rinchiuse, nel migliore dei casi, in carceri di massima sicurezza, fagocitati in un buco nero da cui non si esce più. Disperderli per depotenziare l’impatto mediatico. Disperderli per avvolgerli in una impenetrabile cortina del silenzio. È quello che, a quanto risulta a l’Unità, sta avvenendo in queste ore. Sia il centro di detenzione di Misratah – dove gli eritrei erano stati inizialmente rinchiusi - che quello di Sabha, le cui condizioni sono notoriamente di gran lunga peggiori, sono destinati - rileva Amnesty International - ai «migranti irregolari», sebbene le autorità libiche facciano poco o nulla per distinguere tra richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Il centro di detenzione di Misratah era seguito fino a poco tempo fa dall’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu. Ma dall’8 giugno scorso le autorità libiche hanno chiuso la sede dell’Unhcr ed espulso il personale. Perciò, da allora, tutti i profughi detenuti nel centro libico sono abbandonati a se stessi. Da segregati come da «liberi», la richiesta avanzata alle istituzioni nazionali e internazionali dai disperati di Brak è sempre la stessa: vedere loro riconosciuto il diritto d’asilo politico e la libertà. C’è un precedente inquietante, che investe direttamente l’Italia. Un precedente che dà corpo al terrore che oggi attanaglia gli eritrei «liberati»: il terrore del rimpatrio. «Nel 2004 - ricorda il fondatore di Fortress Europe, Gabriel del Grande - dalla Libia vennero rimpatriati più di 100 eritrei, su voli pagati dall’Italia. Che fine hanno fatto? Condannati ai lavori forzati e poi di nuovo nei campi di addestramento militare». REINSEDIAMENTO «In queste settimane ho avuto modo di parlare al telefono più volte con diversi eritrei detenuti a Mistratah e a Brak. Oltre a raccontarmi delle loro atroci sofferenze, sempre, sempre, ripetevano lo stesso appello: chiediamo di essere trasferiti in un Paese terzo, dove venga riconosciuto il nostro diritto all’asilo. Questa pratica ha un nome: reinsediamento. È questa l’unica soluzione», ribadisce a l’Unità Mussie Zerai. Una soluzione che chiama in causa il Governo italiano. Una soluzione invocata a più riprese, anche da queste pagine, da Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati). Reinsediati. Solo così avrebbe senso parlare di un epilogo felice di questa tragica odissea. 17 luglio 2010

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