domenica 11 luglio 2010

Gli eritrei prigionieri: «3 rapiti dalle guardie»

Stefano Liberti «Il governo italiano dovrebbe offrire immediatamente accoglienza ad almeno 11 eritrei che aveva respinto in precedenza in Libia». Con un comunicato molto duro nei confronti del nostro paese, anche Human Rights Watch (Hrw) entra nella vicenda dei 205 cittadini eritrei rinchiusi dal 30 giugno nel campo di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove sono stati condotti dalle autorità della Jamahiriya con un viaggio in camion-container durato circa 12 ore. L’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani sottolinea come «l’Italia non ha mai dato a questi individui la possibilità di chiedere asilo e adesso questi corrono il rischio di ritrovarsi scaricati nel deserto o deportati in Eritrea». Hrw entra poi nel merito del presunto accordo siglato mercoledì per la liberazione dei 205 ragazzi, che prevederebbe un permesso di residenza e un impiego in un programma di lavori socialmente utili in Libia in cambio dell’identificazione. Un accordo che, come già scritto da questo giornale, non è stato in realtà mai concluso, semplicemente perché nessuno ha mai interpellato in proposito i cittadini eritrei rinchiusi a Braq. «Il governo eritreo considera coloro che scappano dal paese come dei traditori. Che la Libia richieda loro di fornire al governo da cui sono scappati le proprie generalità, dimostra che sono in pericolo anche in Libia». Negli ultimi giorni, il governo italiano ha espresso soddisfazione per il presunto accordo raggiunto, sottolineando come 140 detenuti avrebbero già firmato i moduli richiesti. La cifra è stata fornita dall’ufficio di Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha avuto un ruolo di supervisione nei negoziati tra diplomatici eritrei e funzionari libici. Come spiegano gli stessi detenuti di Braq, che hanno deciso in blocco di rifiutare l’offerta libica (peraltro mai avanzata ufficialmente), «140 è il numero delle persone che avevano firmato i moduli sotto minaccia quando erano nel campo di Misratah». È stata proprio la richiesta di firmare i formulari in tigrino (la lingua che si parla in Eritrea) a scatenare le resistenze dei richiedenti asilo e a suscitare la violenta reazione libica, con la deportazione di massa nel campo in mezzo al Sahara, in vista di una possibile rimpatrio nel paese del Corno d’Africa. Non tutti i 140 che hanno riempito i formulari sono adesso a Braq. Alcuni sono rimasti a Misratah, altri sono fuggiti dal campo durante i tumulti. «Una novantina sono qui tra noi. Ma hanno firmato sotto minaccia: non lo hanno fatto volontariamente», racconta un portavoce al telefono. Anche su questo punto, Human rights watch punta il dito contro Tripoli. L’organizzazione denuncia che «le autorità libiche stanno usando mezzi durissimi sui detenuti per costringerli a firmare i moduli. Il 7 luglio, un gruppo rimastro a Misratah, composto da 31 uomini, 13 donne e 7 bambini, ha detto di essere stato picchiato dopo aver rifiutato nuovamente di riempire i moduli». A Braq nessuno ha ancora chiesto ai 205 reclusi di riempire i formulari, anche se stanno accadendo altri episodi inquietanti. Ieri mattina, tre ragazzi sono stati chiamati per nome e prelevati dalle guardie. «Non abbiamo più saputo niente di loro», racconta al telefono uno dei detenuti. «Temiamo che possano avergli fatto male». I tre desaparecidos si aggiungono ad altri due che sono stati prelevati venerdì scorso dalle guardie e da allora non hanno più fatto ritorno. Sono quindi 200 i detenuti rinchiusi nelle celle di Braq e 5 «gli scomparsi». Sul fronte italiano, si segnala la risposta del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a una lettera-appello inviatagli dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) la settimana scorsa. «Il capo dello Stato - ha detto il direttore del Cir Christopher Hein - afferma che la vicenda continuerà a essere seguita con la dovuta urgenza, nell'auspicio che possano essere rapidamente chiarite le ragioni che hanno determinato la richiesta di aiuto dei rifugiati eritrei e che sia fatta luce sulle condizioni della loro permanenza presso i campi profughi della Libia».

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