giovedì 18 marzo 2010

Malaparte in guerra, scatti inediti. di Laura Leonelli

Curzio Malaparte in Etiopia, tra gli Ascari dell'esercito italiano. Curzio Malaparte, giornalista, che nel fulcro della battaglia, attesa "golosamente", si ritrova con le dita impigliate nella macchina fotografica e non riesce a infilare il rullo. La scena, bellissima, una carica di buoi che spunta improvvisa da un bosco e al galoppo, "nel furor cieco del panico", si mischia ai soldati, ai caduti, agli spari, è già passata, e lui, maledizione, ha perso la foto. Curzio Malaparte anche fotografo, come racconta la mostra «Malaparte arcitaliano nel mondo», aperta da martedì prossimo fino al 26 settembre nella Biblioteca di Via del Senato, a Milano. Materia prima, l'archivio dello scrittore, recentemente acquistato dall'istituzione milanese. Esposti al pubblico per la prima volta manoscritti di opere edite e inedite e accanto, sorprendente, illuminante, più eversiva delle parole, una selezione di quarantotto foto, parte della raccolta di Michele Bonuomo, giornalista e collezionista d'arte e di fotografia. È stato lui trent'anni fa a salvare questo prezioso tesoro di cui oggi pubblichiamo in esclusiva alcuni importanti inediti. Lui, il primo, a scavare tra le pagine di Kaputt e riportare alla luce una semplice frase: «Questa mattina sono uscito con la mia Leica». Il che vuol dire che Kurt Erich Suckert, classe 1898, in arte Curzio Malaparte, fotografava. Nessuno si ricorda più di questa stravaganza. Non gli amici, non la sorella Maria ed è nella sua casa di Firenze, dove alla morte dello scrittore viene trasferita ogni sua carta, che Bonuomo recupera fortunosamente dal fondo di un armadio, a poche ore dallo sgombero, una scatola di cartone. Dentro, come una gorgone di serpi attorcigliate, ci sono i negativi. Quasi duemila scatti, pagine di uno strepitoso diario visivo, che raccontano l'orrore della guerra, le sue vittime, i suoi paesaggi lacerati e ovunque la morte. In tre occasioni della sua carriera di giornalista, Malaparte si ritrova con la macchina al collo: nel 1939 in Etiopia, negli anni della Seconda Guerra Mondiale in Francia, nei Balcani, in Finlandia, in Russia, e infine nel 1956 in Cina e sarà l'ultimo viaggio. «Malaparte conosceva bene la fotografia – spiega Bonuomo – l'aveva scoperta a Parigi e da direttore della Stampa, nei primi anni Trenta, l'aveva portata addirittura in terza pagina, quattro, sei immagini con una grande didascalia, al posto dei soliti articoli. Ma nella sua vita di irregolare, di "uomo tutto", scrittore, polemista, giornalista, cineasta, Malaparte non si è mai presentato come fotografo. La fotografia gli serviva come appunto, il mezzo veloce per riassumere una situazione che poi avrebbe tradotto nella sua magnifica prosa. E questa libertà, questa lontananza dai doveri della bella foto e dai cliché del folclore, nei quali cade invece Orio Vergani, gli ha permesso di raggiungere risultati altissimi. Fin dall'esordio in Africa». Il fotografo Curzio MalaparteSu incarico di Aldo Borelli, direttore del Corriere della Sera, Malaparte raggiunge il fronte della guerra in Etiopia. Nella tabella di marcia, tredici articoli dedicati alle vittorie dell'Impero e alcuni saranno illustrati con le immagini dell'inviato. A fine gennaio Curzio approda a Massaua e da lì ad Asmara. In tre mesi percorre, insieme al 9° e 5° Battaglione Eritreo, quasi seimila chilometri, attraversando il territorio di Amara, dal Tacazzè ad Addis Abeba. Quello che vede è quello che non riportano i cinegiornali dell'Istituto Luce (da consultare lo straordinario archivio on line, www.luce.it). In un'estenuante carrellata cinematografica, sotto un sole «che ha una sua fissità, una sua severa, impassibile ostinazione» – scrive nel pezzo Nelle gole del Beresà – Curzio fotografa la vastità "surreale" del paese, il vuoto polveroso e disperato della conquista e dei suoi protagonisti. Sullo sfondo di una terra arida, gli uomini sono piccoli, lontani, gli ufficiali impettiti quasi si perdono tra le scaglie del deserto, e gli Ascari chiamati all'appello indossano con pena i resti di un guardaroba italiano: un impermeabile, una giacca, un gilè, una sciarpa. Gli eroi veri sono gli animali, i cani, amatissimi, i muli – e Malaparte riprende le manovre dell'esercito dall'alto di questa piccola altura – e poi i cavalli, scheletrici, con le criniere bianche, immobili nell'assenza totale di vento. Unico riparo alla calura, nella loro quiete silenziosa, sono le capanne delle sciarmutte e forse ad attrarre l'obiettivo, più dei corpi, sono le pagine della Domenica del Corriere, memoria di lettori clienti, incollate alle pareti. Due anni dopo, Malaparte assiste ai bombardamenti di Belgrado. Cambio di temperatura e di luce. Non c'è sole ma nubi nere. Le macerie sono ovunque, la realtà, di nuovo, è aliena a ogni logica e Curzio fotografa una scrivania e la sua sedia, abbandonate al centro di un viale, quasi a registrare con puntualità d'ufficio il passaggio del nulla. Non ci sono vittime per le strade, ma lungo i fossi, appena fuori dalla città, lungo quegli argini su cui improvvisamente sale un drappello di soldati, appaiono le carcasse di quattro cavalli. In una battuta di Cristo proibito, il film che Malaparte gira nel 1950, Raf Vallone dice: «La guerra odia i poveri, si diverte a umiliarli, a farne degli assassini». A riprova di questa vocazione a esplorare e denunciare ogni abisso, l'inviato del Corriere, «furioso individualista al servizio di se stesso», nelle parole di Alberto Moravia, non smetterà mai di ritrarsi: con una sahariana nella Piana dei Serpenti, in divisa da alpino in Francia, in giacca di tweed in Jugoslavia, nudo tra le nevi della Finlandia. L'io dello scrittore, il suo corpo, è misura di ogni cosa. La pietra di paragone che lo spinge a coniare una serie di titoli geniali, Donna come me, Cane come me, Casa come me. Tutto, intorno, si adegua alla forza dirompente della sua personalità. Fino a quando, nel 1956, il viaggio in Cina non impone un cambio di prospettiva. Malaparte, l'uomo d'azione, «un intellettuale d'intervento» come egli stesso si presenta, si trova di fronte a un paesaggio immobile, indifferente. Il suo procedere fotografando, come aveva sempre fatto con impeto e ambizione, diventa qui, nella Città Proibita e nella remota valle di Dunhuang, tra le immense statue di Buddha, una semplice camminata. Solitaria. Curzio non domina, è malato. Ma anche questa volta avrebbe potuto dire: «Fotografia come me». «Malaparte Arcitaliano nel mondo», Milano, Biblioteca di Via Senato, dal 2 marzo al 26 settembre. Da ottobre a gennaio 2011, la mostra passerà al Museo del Tessuto di Prato

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