sabato 28 marzo 2009

Tra i rottami italiani in Eritrea, dove l’unica speranza è la fuga 26 marzo 2009| Matteo Indice (fotografie di Astrid Fornetti)

ASMARA. Sull’armadio delle stoffe pesanti c’è la foto del suo unico viaggio in Italia: Roma 1960, Abebe Bikila vince l’oro nella maratona con i colori dell’Etiopia e il connazionale Giovanni Mazzola (Jovani Mazola quando i suoi amici lo scrivono distrattamente) è uno di quelli in primo piano che lo sta portando in trionfo. «Io facevo parte della selezione di ciclismo, ma non andammo a medaglia». Cinquant’anni dopo Mazzola cesella tessuti in Denkel street, cuore di Asmara che nel frattempo è diventata la capitale dell’Eritrea, indipendente dopo due guerre scriteriate. «Viviamo con fatica - dice calibrando ogni parola, perché il regime controlla tutto - diciamo con fatica...». Cominciamo da qui, allora, dal tracollo della prima colonia ridotta a un rottame d’Italia dove sopravvivono lasagne e amarcord e cappuccino, certo, e i tombini con la scritta “Municipio” e i bus riciclati; ma quattro milioni di abitanti sono in balìa d’un dittatore - l’ex eroe della resistenza Isaias Afewerki - e se non ci fosse qualche rimessa dall’estero sarebbero già morti di fame. Quattrocentomila uomini e donne fra i 18 e i 35 anni (un decimo della popolazione) sono “sequestrati” dalla leva obbligatoria, ammassati nelle tende senza luce dei campi al confine con l’Etiopia e incapaci di reinserirsi nel già malandato tessuto sociale. Spiegano all’ambasciata: «Finiscono la scuola (talvolta proprio la scuola italiana, che qui ha 1200 studenti e una rotazione annuale di cento insegnanti, ancora pagati dal nostro ministero degli Esteri) e li spediscono a vivere come animali. Quando tornano hanno disimparato tutto». L’unico rimedio è la fuga, in un perverso ciclo del destino che spinge centinaia di eritrei ad assediare Lampedusa dopo odissee inenarrabili, mentre un secolo fa era l’Africa orientale a sembrare la salvezza. Mazzola è il figlio di Salvatore, un palermitano del genio civile che arrivò ad Asmara nel 1935, e di Demechese Gheremeskel, la donna che si è vista abbandonare dopo aver fatto sette figli: «Le avevano lasciato il mestiere di sarta, ci è bastato per andare avanti». In Italia è stato solo una volta, Roma 1960 appunto: «Chiesi ai carabinieri di poter cercare mio padre, mi dissero che non era cosa». A 150 metri dal suo negozio c’è il cinema “Impero”, di fianco il caffè “Moderna” e poi la cattedrale cattolica «costruita grazie al generoso oblatore Benito Mussolini»; a tre chilometri in linea d’aria s’intravede invece lo stabilimento Fiat con le saracinesche sbarrate, perché in Eritrea non si produce più nulla. I fortunati che strappano un impiego in qualche meandro dell’opprimente burocrazia guadagnano sì e no 800 nakfa al mese, traducibili in 35-40 euro, ma il problema sono i prezzi ingovernabili. Fatti due conti è come se in Italia, con le nostre retribuzioni, un pieno si pagasse mille euro o un chilo di pasta 120. Perciò si vive di riciclo e gli oggetti di latta, pelle, ferro, legno finiscono tutti al mercato Medheber, il vecchio “caravanserraglio” dove spuntano motrici Iveco anni ‘60 e le cose rinascono una, due, dieci volte. È una città nella città dove s’affannano almeno cinquemila persone tra fonderie improvvisate, polvere di ferro, odore di berberé e i bambini che usano la fiamma ossidrica prima di andare a scuola. «Il Medheber - scherza Tecle Gerhi - è l’unica fabbrica che funziona in Eritrea». Gerhi è un ex camionista di 67 anni e per una vita ha fatto la spola fra Massaua e Addis Abeba: guidava Fiat da 40 tonnellate che non si sa come riuscisse a trascinare sulle strade che s’arrampicano verso l’Etiopia, sbocco naturale dei commerci in seguito azzerati dalla guerra. Oggi si ferma tutto al valico di Adi Keyh, dove i cartelli spiegano ai ragazzini che ci sono ancora mine anti-uomo seppellite nei campi, sospesi sulle rovine di civiltà millenarie e paesaggi che varrebbero miliardi se esistesse il turismo. Stessa cosa salendo verso il Sudan: superata Keren, dove gli italiani furono massacrati nel ‘44 dagli inglesi, il governo blocca l’accesso alle strade e nessuno osa avvicinarsi. Una delle poche cose indovinate dal ministero - che ha sede nell’ex Casa del Fascio - è lo slogan per descrivere la peculiarità del Paese: «Three seasons in two hours», tre stagioni in due ore. Ed è esattamente quello che accade scendendo verso la costa e la caldissima Massaua: dai 2400 metri della capitale al livello del mare nello spazio di 110 chilometri, tagliando Dongollo dove i bimbi s’arrabattano nelle rovine della “Fabbrica acqua termominerale Ali-Hasa”, Dogali e i sobborghi: grovigli di lamiera assediati dalla polvere, sotto un sole che le cuoce ad almeno 40 gradi deformando i volti. E però Massaua è la voglia di esserci con un nodo allo stomaco, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco ridotta a un deserto di speranze. Le dimore bianche retaggio della dominazione turca sono accartocciate su se stesse, la gente è imprigionata in casa dall’afa perché i turisti non esistono più e i ristoranti segnati sulle guide un anno dopo sono già chiusi. Bisogna aspettare il buio e un esercito di ombre si muove senza ordini ma perfetto, la rete sulle spalle dei mariti, i bambini a rimboccare le coperte, le donne che preparano il tè in attesa di dormire fuori poiché solo all’addiaccio si può respirare. Le vite all’ultimo stadio nella città fantasma restano appiccicate allo sguardo come il caldo sulla pelle, e non vanno mai via nemmeno nei sogni. Solo la luce livida di una micro-televisione calamita famiglie e zanzare e l’insegna del “Golden Navy”, la balera un po’ equivoca messa su per alleviare qualche marittimo, balza agli occhi in mezzo al ricordo proiettato dallo scheletro del vecchio Banco d’Italia, edificio art-decò semidistrutto a due passi dal porto senza navi, che ormai fa soltanto venire i brividi. E poi il neon dell’hotel “Torino” è spento e sulla terrazza non fanno più le feste da ballo che negli anni d’oro calamitavano l’imperatore etiope Haile Selassìè, nome vero Ras Tafari. Per i blitz da Addis Abeba (Etiopia ed Eritrea erano ancora una cosa sola) aveva scelto il palazzo d’un raìs ottomano, sebbene qualcuno fosse stato più furbo di lui. L’imprenditore Luigi Melotti, quello che in Africa orientale ha importato la birra, s’era fatto costruire una villa spettacolosa in fondo all’isola di Taulud, una delle due che costituiscono Massaua, l’orizzonte stretto fra il giardino e il mar Rosso. Il paradiso di Melotti - tramandato agli eredi che si vantavano d’aver ospitato, fra gli altri, Giulio Andreotti, Giancarlo Pajetta e Oriana Fallaci - non esiste più, gli sgherri del presidente Isaias l’hanno raso al suolo nella primavera 2006 per fare un dispetto al primo segretario dell’ambasciata Ludovico Serra, che l’aveva visitata senza chiedere mille permessi. Eppure il diplomatico non è stato l’unico, a finire nel mirino. Il vecchio Franco Parmesan, che gestiva l’appalto della nettezza urbana nella capitale ed era un ricco vero, s’è visto piombare in casa a settembre due soldati inviati direttamente dal capo dell’esercito: «S’informavano sulla proprietà, si vede che il generale è molto interessato». E gli è toccato fare la spola con l’Italia per difendere la villa dall’esproprio. L’Eritrea precipita nonostante il mare che la divide dallo Yemen ospiti un paradiso: isole Dahlak, arcipelago più bello forse delle Maldive ma irraggiungibile. Ci sono solo due barche a pagamento, ma non vanno quasi mai, non c’è nafta. Gli indigeni che popolano i villaggi sugli isolotti qualche volta muoiono di febbre, e supplicano chiunque attracchi di recuperare medicine: «Non basterebbero i commerci d’una vita - raccontano le donne che passano gli anni a intrecciare perline - a pagare un solo viaggio sulla terraferma». E l’imprenditore italo-eritreo Giovanni Primo si dispera, visto che i cantieri aperti per costruire un resort da depliant occidentale sono bloccati: il precipizio nel quale corre il paese, e l’isolamento totale voluto da Afewerki, trasformano gli affari in un bagno di sangue. Tecle Gerhi, quello che faceva l’autista e oggi si è reinventato guardiano per campare, guarda i ragazzi e stringe gli occhi, in una nazione che qualche volta nemmeno finisce sulle cartine ed è piena di contadini ghettizzati in esistenze pre-moderne. Lui parla sempre in italiano, anzi dice d’essere mezzo italiano com’era tutto il suo camion. «Non ci sono mai stato, però». E vista da lì, sembra persino un miraggio.

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