martedì 16 dicembre 2008

A settanta anni dalle leggi razziali

La scellerata scelta di Mussolini, avallata da Vittorio Emanuele III, era di arianizzare l’Italia eliminando ogni traccia di ebraismo MICHELE SARFATTI Settanta anni or sono, il governo fascista introdusse in Italia un corpus legislativo che istituiva la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e assoggettava tali persone a un gran numero di divieti, escludendole progressivamente dal Paese. Con ciò, la dittatura di Benito Mussolini, con la controfirma del re Vittorio Emanuele III, trasformò l’Italia (il Regno d’Italia), in uno “Stato razziale”, in uno Stato razzista, in uno Stato antisemita. Qual è il significato di ciò nella storia d’Italia? Si trattò di un evento di rilevante gravità. Di una grave ferita, inferta agli ebrei, al Paese, alla società civile tutta (ovvero, anche ai non ebrei). Era la prima volta dal Risorgimento che si faceva distinzione tra cittadini e cittadini, tra italiani e italiani. Ed era la prima volta che si incardinava tale differenza sul criterio della razza, che veniva presentata come realtà scientifica esistente oggettivamente (sappiamo bene che essa non esisteva e non esiste nella realtà, ma ciò che qui interessa è riportare cosa ritenevano Mussolini e il gruppo dirigente del fascismo). Debbo aggiungere che il vocabolo “razza” aveva fatto il suo ingresso nella legislazione italiana sin dall’inizio del Novecento, con riferimento alle popolazioni delle colonie (specie l’Eritrea, poi anche l’Etiopia). Il vocabolo ebbe inizialmente anche una funzione definitoria e poi sempre più nettamente una finalizzazione discriminatoria-persecutoria, che portò l’Italia a causare enormi torti e immensi lutti a quelle popolazioni. Tuttavia la “razzizzazione” (purtroppo si dice così) e la persecuzione degli ebrei italiani contengono un ulteriore specifico elemento di gravità: le vittime del 1938 erano pieni cittadini e perfetti residenti dello Stato che decise di perseguitarli. L’iniziativa italiana del 1938 fu autonoma, sul piano internazionale? Nei decenni di inizio Novecento l’antisemitismo era in notevole crescita in tutta Europa e oltre Atlantico. E’ vero, molti europei e americani non partecipavano a tale processo, o lo combattevano nettamente. E non va scordato che negli anni Trenta nessuno ancora, pensando l’antisemitismo, poteva prefigurare le camere a gas di Auschwitz-Birkenau o le uccisioni di massa nelle boscaglie orientali. Ma quella crescita era in atto. Nel 1933 poi la Germania nazista aveva dimostrato concretamente che un Paese europeo dalla storia “evoluta” poteva introdurre nel proprio ordinamento una legislazione antiebraica che, mentre si riallacciava addirittura all’epoca precedente la rivoluzione francese, si presentava come “moderna”. In questo contesto, senza esservi in alcun modo obbligato o pressato, Mussolini decise in piena libertà di seguire la strada intrapresa da Adolf Hitler. E varò un corpus legislativo (ora riprodotto in www.cdec.it) che, appunto perché similare ma autonomo, in alcuni ambiti fu più grave di quello vigente in quel settembre-novembre 1938 a Berlino (ben presto il dittatore tedesco superò in gravità quei limitati primati italiani; che però mantengono la loro rilevanza storiografica). Quale tipo di razzismo prescelse l’Italia fascista? La risposta a questa domanda è resa complessa dallo scarso spessore dell’ideologia razzista e antisemita nostrana, rispetto a quelle d’oltre Brennero. (Per inciso, ciò dimostra che non occorreva un preventivo, prorompente e diffuso odio antiebraico per giungere a decidere la persecuzione). In termini schematici, possiamo osservare che nella pubblicistica prevalsero leggermente concezioni razzistiche di ordine spirituale o nazionale, connesse tra l’altro alla nuova esaltazione della “idea” di Roma più che della “razza” latina. Ma dobbiamo tenere conto che, nella legge, la definizione di “appartenente alla razza ebraica”, sulla cui base venne deciso chi doveva essere perseguitato e chi no, fu imperniata sulla concezione razzistico-biologica. Per dirla in poche parole: il discendente di quattro nonni ebrei fu sempre classificato “di razza ebraica”, anche qualora lui stesso e magari entrambi i suoi genitori fossero battezzati. E una discendente di quattro nonni cosiddetti “ariani” poteva anche essersi convertita all’ebraismo e avere prole cresciuta ebraicamente, ciononostante per la burocrazia statale rimaneva comunque “appartenente alla razza ariana”. Gli italiani non erano persone libere di scegliere, bensì semplici contenitori e trasmettitori di materiale biologico utile o disutile alla nazione. Quale relazione legò la legislazione antiebraica del 1938 alla consegna degli ebrei a killers specializzati stranieri del 1943-1945? Non vi fu alcun automatismo; Mussolini non cacciò nel 1938 gli ebrei dal lavoro, dall’esercito, dalla vita culturale col fine di, o comunque prevedendo di, farli deportare ad Auschwitz-Birkenau (peraltro, come detto, ancora fuori del raggio di prefigurazione degli europei dell’epoca). Mussolini voleva “solo” disebreizzare e arianizzare l’Italia. Ma gli arresti e le deportazioni attuati cinque anni dopo dall’occupante nazista e dalla Repubblica Sociale Italiana furono facilitati dal fatto che i morituri erano ormai identificati, schedati, impoveriti, separati. Nonché dal fatto che Stato e società li consideravano perseguitandi. Per questo è legittimo dire che la legislazione antiebraica si rivelò utile, funzionale, in parte necessaria, allo sterminio successivamente deciso. * Storico, direttore del C.D.E.C.

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